EMPATIA

Vicini a quel barcone

Mi venivano i brividi, e, subito dopo, attacchi di rabbia, quando mio padre iniziava la sua cavatina cinica: “L’uomo è bestia, egoista e capace di amare solo se stesso e la sua progenie”. La chiosa, lo sapevo, sarebbe stata, invariabilmente: “Siete dei poveri illusi voi, che volete la giustizia e l’eguaglianza”. Pensavo che era un vecchio scemo, chiuso, gretto. Un piccolo borghese senza sogni e senza progetti grandiosi. Leggendo di quel 71 % degli italiani che si sarebbe detto (il condizionale è diretta emanazione della mia incredulità di fronte ai sondaggi) favorevole ad incriminare per immigrazione clandestina i 5 superstiti di un gommone carico di morti di sete, ho pensato forse aveva ragione mio padre. L’empatia, questo stato d’animo faticoso e sublime, non è, evidentemente, alla portata di tutti. Ci si mette nei panni dei propri figli, poi dei propri amici, quindi dei simili intesi come affini, perché la fantasia è poca (nella media) e non riesce a coprire la distanza culturale fra una ventisettenne eritrea e la vicina di casa, anche lei di Brescia o Verona, che legge da sempre lo stesso giornale ed espone, negli incontri di pianerottolo, opinioni omogenee alla sottocultura di caseggiato. Pare difficile, invece, sentirsi, anche solo per un attimo, la pelle nera, la miseria come prospettiva, la guerra in casa, la carestia, l’ignoranza addosso, la denutrizione, la paura. Ci si riuscisse, magari facendo, come in certe scuole di recitazione,  esercizi di penetrazione nella psicologia del personaggio, non si potrebbe restare indifferenti a quell’oscillare patetico di speranza e disperazione, non si saprebbe condannare a restar fuori chi ha bisogno di essere accolto. L’empatia è la religione dei laici, si soffre come all’inferno,  ma non ci si può rinunciare. Pena la perdita dell’unico Dio concreto, praticabile: l’altro, la persona.

Questo articolo è stato scritto da Lidia Ravera (scrittrice) e pubblicato su “L’Unità” del 27 agosto 2009,  nella rubrica Voci d’Autore.

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