Invito alla lettura – (lo spirito del togunauta)

Pubblichiamo questo passo tratto dal racconto di John Fante - “1933 Un anno terribile”, per ribadire lo spirito della nostra associazione.

Richiamando la Quarta di copertina, il finale del racconto è “un vero inno alla speranza e alla fame di vita dell’adolescenza”. (Per noi anche se non più adolescenti.)

“Sapevo di poter contare su Kenny. Aveva una paghetta settimanale e un conto in banca, inoltre non era come se fossi completamente al verde e dovessi chiedergli di finanziare l’intero viaggio.  Dalla strada vidi la sua finestra illuminata, seppì così che era a casa. La luce brillava anche nella stanza di Dorothy, e quando suonai sperai che sarebbe venuta lei ad aprirmi la porta, non Kenny. Ma non era nemmeno Kenny. Era il signor Parrish. – Voglio parlarti, – disse uscendo in fretta sulla veranda e chiudendo la porta dietro di sé. Era come un pezzo di ghiaccio. Provò a mantenere anche il tono della voce gelido, ma gli tremava dall’emozione. – Voglio che tu giri al largo di mio figlio, – disse. – E anche da questa casa-. Mi piazzò un dito sul petto. – Chiaro? Qui non sei il benvenuto -. Tremava – Ha qualche problema? – dissi. – Ascolta. Kenny non ti segue in questo progetto truffaldino. E’ un ordine. E non deve più mettersi in combutta con te. Hai una pessima influenza su di lui, hai capito? Lascialo stare. Stai lontano da qui, restatene dalla tua parte della città,  altrimenti chiamo la polizia.
Prima che potessi dire qualcosa, anche se in realtà non avevo  proprio niente da dire, rientrò velocemente, mise il catenaccio con un gran fracasso, e spense la luce della veranda. Me ne andai completamente inebetito. Sapevo di non piacere al signor Parrish, ma non che lui mi odiasse. Era perché avevo guidato il suo camioncino? O Ken gli aveva detto della betoniera? Sapeva quello che c’era stato tra Dorothy e me? Non ne avevo  idea. Non capivo più niente, non sapevo più neanche che giorno fosse, non avrei  potuto distinguere la merda dalla cioccolata, chi ero, e perché, e improvvisamente arrancando giù per la collina verso casa non mi importò più di nulla, ero stanco di preoccuparmi, e a modo suo il signor Parrish aveva deciso per me. Il viaggio era annullato. Niente Kenny, niente viaggio. Ero troppo stupido per farlo da solo, avrei potuto sbagliare strada, andare a finire a Torricella Peligna, da dove venivo.  Mio padre aveva ragione. Avrei dovuto aspettare un anno. Diavolo, Roper non era poi così male. Almeno potevo andarci  in giro senza perdermi. Avrei ridato i soldi a mio padre e aspettato un altro anno. Il Braccio cominciò a protestare, ad agitarsi, piangeva come un bambino viziato, mi dava del fifone. Sei una nullità, un rettile, pensi solo a te stesso. Gli diedi una pacca per consolarlo. Ascolta, gli dissi, c’è un sacco di tempo, finiamo gli studi e passiamo una bella estate qui a Roper. Lavoreremo  per il vecchio,  lavoreremo  la domenica, e risparmieremo. Ma Il Braccio non ascoltava quel tipo di discorsi. Divenne moscio e indifferente, e fece finta di essere morto. Mi fece sorridere. Che furbo! Arrivendo sulla nostra strada dopo la stazione di servizio di Art, intravidi nel suo garage qualcosa che mi sembrò di riconoscere, che pareva un cumulo di grasso. Mi avvicinai per guardare più da vicino. Ed eccola lì, la betoniera di mio padre, con il motore smantellato, le sue parti sparse sul pavimento, il carburante immerso in un secchio di benzina.  Sentii un’improvvisa fitta al petto, come se stessi per piangere. Da sopra la spalla vidi Art Belden, il proprietario della stazione, comodamente seduto su una sedia, che ascoltava Bing Crosby cantare Where the Blue of the Night alla radio. Mi avvicinai e aprii la porta, e Art mi disse: – Ciao Dom.
Il cestino del pranzo era aperto sul bancone davanti a lui. Aveva  indosso una tuta bianca con quattro matite che gli uscivano dal taschino, e io lo odiai. Odiavo la perfetta accuratezza di quei panini al burro di noccioline che stava mangiando, la cui crosta era stata tolta con attenzione da sua moglie. Odiavo anche lei. Odiavo la casa grigia e molto ben tenuta in cui vivevano, su Spruce Street. Odiavo il suo collie. Odiavo il suo amabile sorriso, e odiai la sua risposta prima ancora di avergli domandato che cosa ci stesse facendo la betoniera di mio padre nel suo garage. – Era di tuo padre,  – disse -. Gliel’ho comprata questo pomeriggio. Sapevo che era la verità,  però gli risposi: – Non ci credo.
Diede un morso al panino, spense Bing Crosby, e mi fece vedere lo scontrino firmato da mio padre. Per quei venticinque unti dollari unti che avevo in tasca.
- Te la ricompro. – Non è in vendita. – Te ne do trenta.
Scosse la testa e si versò del latte nella tazza del thermos. – Facciamo quaranta. – Stammi a sentire. Non lo voglio vendere.
Tirai fuori il mucchio di banconote e lo gettai sul bancone. – Cinquanta dollari. Venticinque ora e venticinque quest’estate.
Arrivò una macchina e lui uscì per servirla. Presi il rotolo dei soldi e tornai alla betoniera. Era ridotta male e molto rovinata, come le mani di mio padre, era una parte della sua vita, così stranamente antica, come se fosse venuta da un paese lontano, da Torricella Peligna. L’abbracciai e la baciai, e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, non avevo  scelta, dovevo  farcela.

( John Fante – 1933 Un anno terribile – Einaudi (stile libero) 2008)

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