Quale Europa frenerà i mercati?

La decisione unanime fra i governi europei: per contenere gli assalti della finanza saranno necessarie misure rigorose di bilancio e tagli degli stipendi. Una soluzione ideale per portare l’economia sulla strada della deflazione e aggravare i problemi sociali. E se si pensasse a qualcosa di completamente diverso?

di JAMES K. GALBRAITH

All’inizio di gennaio, il governo greco ha convocato in tutta fretta un aeropago di esperti in economia. Tra di loro un funzionario del Fondo monetario internazionale (Fmi) ha spiegato la necessità di smantellare il sistema pubblico assistenziale. Un altro consigliere, dell’Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (Ocse), ha affermato in tono gioviale : “Una decisione che fa inorridire tutti, compresi i vostri sostenitori, può essere solo una buona decisione”.
Il teorema che è alla base di queste idee è ben noto: i mercati ordinano agli stati di stringere la cinta. Chi acquista azioni è l’unico giudice dei piani di austerità consentiti dai governi, è il solo che decide se bisogna dare fiducia alla capacità di uno stato di rimborsare il proprio debito. Se un paese si sottomette a una rigorosa politica di bilancio, i tassi di interesse ridiventano sopportabili – e i rubinetti del credito si apriranno di nuovo.
Questa teoria presenta però un grave difetto: le promesse non costano nulla. Anche quando gli stati si faranno in quattro per far piacere ai mercati, ci vorrà del tempo prima che le misure di austerità entrino in vigore e raggiungano i loro obiettivi. Il rifinanziamento di un debito preesistente si basa sull’annuncio di riforme che non hanno ancora avuto luogo, cioè sulla fiducia che i mercati accordano alla buona fede del debitore. Ma in che modo uno stato ritenuto irresponsabile può ispirare questa fiducia? Per quanto la Grecia faccia promesse solenni sulla sua determinazione nello spogliare funzionari e pensionati, il suo debito arriverà a scadenza prima della realizzazione delle sue promesse. Tutto ciò porta a un grave paradosso: più Atene si impegna a ridurre le spese e più i mercati che cerca di compiacere si fanno diffidenti.
Questa situazione ha rovinato l’idea in base alla quale un programma di rigore è sufficiente a sbloccare il mercato del credito a condizioni accettabili per il paese. L’unico mezzo per evitare il fallimento risiede quindi in un’iniezione massiccia di fondi europei ai canali del Mercato. Per il governo greco la questione è diventata: come persuadere l’Unione europea a mettere mano al portafoglio?
Questo problema ha dato alla crisi economica un carattere molto più politico. In altre parole Atene deve continuare i suoi annunci di tagli drastici e di “riforme”, non per rassicurare i mercati ma per soddisfare Angela Merkel. A quanto pare l’elettorato del cancelliere tedesco sarebbe disposto a tollerare il “piano di salvataggio” solo a condizione che il popolo greco sopporti dei sacrifici spettacolari. Nel frattempo il governo di Georges Papandreou ha fatto pubbliche dichiarazioni di fedeltà all’euro e ai suoi creditori, ricordando a Parigi e a Berlino che l’ipotesi di un rifiuto di risanamento della Grecia trascinerebbe nella sua rovina la Spagna e il Portogallo.
Sul piano economico questo scenario lascia perplessi. Le misure di austerità promesse produrranno più disoccupazione e meno entrate fiscali, non ci si deve quindi aspettare una riduzione sensibile del deficit di bilancio. Inoltre tagliare i consumi greci – come raccomandato dal programma del Fondo monetario internazionale (Fmi) – si tradurrà in perdite di posti di lavoro nelle industrie tedesche e francesi che vendono parte delle loro merci in Grecia.
E poiché l’euro impedisce qualunque svalutazione, non si può neppure sperare in un aumento di competitività. Per di più le misure suscettibili di portare una momentanea boccata di ossigeno – cioè i tagli nella funzione pubblica e le riforme fiscali – saranno ancora più difficili da applicare in un clima socialmente difficile e con dei tassi di interesse esorbitanti.
Mentre il conto alla rovescia si avvicina alla fine, i dirigenti europei si dibattono fra i loro regolamenti contorti, un’Unione sempre più di cartapesta, i problemi politici interni e una limitata percezione del problema. Alcuni responsabili ribadiscono con fanatismo l’idea che tagli evidenti nelle spese pubbliche favorirebbero la crescita economica. In realtà la loro analisi porta al disastro. E poiché il cancelliere tedesco sembra aver rifiutato l’opzione di un piano di salvataggio, un’ondata di panico si è abbattuta sulla zona euro: la quotazione dei contratti assicurativi contro il fallimento (credit default swaps o Cds) si è improvvisamente impennata per la Spagna, per il Portogallo e per le loro banche, sintomo della fragilità di un sistema finanziario europeo in cronica mancanza di garanzie di depositi su scala europea. Alla fine la Merkel ha dovuto suo malgrado consentire al piano di salvataggio.
Gli eventi hanno presto portato i protagonisti della tragedia a una seconda rivelazione: la decisione di proteggere la Grecia dal fallimento ha rialimentato le tensioni invece di allentarle. Se per esempio si possiedono dei titoli del debito portoghese e di fronte all’incertezza del loro rendimento si decide di venderli o di comprare un Cds, la conseguenza è un’ulteriore svalutazione del debito, rendendo ancora più difficile per Lisbona ottenere nuovi prestiti. Per i mercati finanziari il mezzo migliore per garantire i pagamenti consisterebbe nel chiudere il mercato delle obbligazioni private e – come ha fatto la Grecia – nel ricattare l’Unione europea. In questo modo un piano di salvataggio sarebbe quasi certo, tanto più che il Portogallo gode di una reputazione di paese meno “irresponsabile” della Grecia. Dopo il Portogallo sarebbe la volta della Spagna.
PARODIA DI AUTORITA’
In altre parole, gli speculatori detengono il potere di imporre un’”europeizzazione” dei debiti mediterranei. Ed è questo potere che abbiamo visto all’opera a metà maggio. Il panico delle capitali europee obbedisce allo stesso meccanismo che ha fatto tremare gli Stati uniti nel settembre 2008: l’eccessiva pressione esercitata dai mercati su dei politici indecisi.  Come qualunque vittima di un ricatto, il presidente francese Nicolas Sarkozy è andato su tutte le furie. A sua volta, in una farsa di autorità politica, il cancelliere Merkel ha annunciato il divieto di vendita allo scoperto “nuda” (tecnica che permette agli speculatori di vendere dei titoli che non possiedono) per le obbligazioni di stato. Ma si tratta di rappresaglie tutt’altro che dissuasive. Del resto che altro potevano fare? La vendita di obbligazioni o di Cds di Grecia, Portogallo o Spagna può essere fatta fuori dall’Europa – ad esempio a New York o alle isole Cayman. Al minimo sentore di una pressione, gli speculatori si riuniscono e lanciano un nuovo attacco.
Per un certo tempo le centinaia di miliardi di euro mobilitati dall’Unione europea hanno calmato la situazione. Ma rapidamente ci si è resi conto che gli stati membri possono trovare il denaro solo prendendolo a prestito gli uni dagli altri, perché è impossibile per loro creare nuove riserve, così come incoraggiare simultaneamente la crescita e assorbire i debiti. Questa funzione può essere fatta solo dalla Banca centrale europea (Bce). All’inizio della crisi il ruolo svolto da quest’ultima è stato poco chiaro. Contro i suoi stessi principi, la Bce ha finito per comprare titoli di stato. In questo modo ha preso il controllo del problema del debito, ma a prezzo di un euro più elastico. Di conseguenza l’euro non si presenta più come una valuta “forte” e si avvia verso un ineluttabile declino. Le febbrili dichiarazioni del presidente della Bce, Jean – Claude Trichet, che non avrebbe “cominciato a sfornare nuove banconote”, ma che si sarebbe limitato a riciclare i depositi a termine, non hanno fatto che aumentare la confusione; con il passare del tempo si è fatto strada il sospetto che i dirigenti dell’Unione fossero disorientati. Con il risultato di provocare un vero e proprio clima di panico.
Questa tempesta è almeno servita a delineare tre pilastri di saggezza finanziaria. Il buon funzionamento del sistema presuppone l’esistenza di uno stato più influente di qualunque mercato; deve agire per assicurare i pagamenti del debito pubblico – sul modello della Federal Reserve americana – altrimenti i mercati hanno la meglio sui poteri pubblici in base al principio “divide et impera”. L’Europa ha fatto ricorso a immensi sforzi per creare un “mercato unico”, ma senza darsi i mezzi per controllarlo e decretando che la Bce non inietterà valuta supplementare nel sistema. In questo modo l’Ue ha creato dei mercati più potenti degli stati e degli stati pieni di debiti che si ritrovano sull’orlo del fallimento. Solo la Bce può rimediare a questa situazione, abbandonando le regole che la ostacolano.
Fino a che punto adotterà la politica di iniezione di liquidità seguita dalla Federal Reserve nell’autunno 2008? Una cosa è certa, anche se la Bce dovesse andare fino in fondo in questo cambiamento e mettere fine alla crisi finanziaria, la crisi economica continuerà ad amplificarsi . Infatti ogni paese “salvato” riceverà solo i capitali necessari per pagare i suoi creditori, in cambio di una riduzione drastica delle sue spese pubbliche. Le banche ne usciranno vincenti, ma non la popolazione. L’uomo dell’Fmi consultato dal governo greco avrà vinto la sua scommessa e l’Europa sprofonderà nella recessione.
A meno che la Bce non cambi posizione, che le forze sociali che hanno costruito lo stato assistenziale si mobilitino per difenderlo, e che l’Unione europea si renda conto delle sue disfunzioni costituzionali, derivanti dall’inesistenza di un dispositivo di stimolazione macroeconomica.
L’Unione avrebbe bisogno di un regime fiscale integrato, di una banca centrale dedicata alla ricchezza economica e di un settore finanziario non più in grado di nuocere. Ma le manca soprattutto un meccanismo di bilancio automatico destinato alla piena occupazione, che limiti la recessione e compensi il calo della domanda nelle sue regioni più povere. Un sistema del genere dovrebbe basarsi sull’azione governativa e su quella dei cittadini.
Da un punto di vista puramente tecnico, esistono mezzi abbastanza semplici per realizzare questo obiettivo. La creazione di un’Unione europea delle casse pensioni potrebbe servire ad esempio per armonizzare il livello delle pensioni fra i paesi membri, in modo che gli ex lavoratori di Portogallo, Grecia o Spagna beneficino delle norme in vigore nei paesi più avanzati. Allo stesso modo si può immaginare un sistema integrato tale da garantire uno stipendio minimo decente a tutti i lavoratori dell’Unione. Una Banca europea di investimento potrebbe finanziare la creazione di università transnazionali e garantire un insegnamento di qualità da nord a sud. Il principio fondamentale è che l’unica risposta appropriata alla disoccupazione di massa e ai deficit di bilancio che ne risultano consiste nell’accrescere le spese pubbliche, non nel diminuirle.
Qualcuno obietterà che uno scenario del genere porterà a tassare i tedeschi per favorire i greci. Ma quest’argomento non ha alcun senso dal punto di vista economico. Si tratta piuttosto di mobilitare le risorse non utilizzate in tutta Europa e di integrarle nel circuito produttivo. Un orientamento del genere non comporterà un costo supplementare per chi dispone già di un posto di lavoro, poiché la fornitura di beni e servizi destinati a tutti si svilupperà in modo rapido. Un sistema fiscale integrato permetterebbe invece di frenare l’evasione fiscale che rovina la Grecia e altri paesi dell’Europa meridionale. Indubbiamente le riforme implicano delle imposte più pesanti, ma queste colpirebbero i ricchi nei paesi poveri e non i poveri nei paesi ricchi.
L’esperienza di questi ultimi mesi suggerisce che la tanto attesa ripresa potrà difficilmente prodursi fino a quando i mercati conserveranno la loro forza d’urto; sottolinea quindi la necessità di disinnescare il settore finanziario per impedirgli di minacciare l’Unione europea. Anche in questo caso il compito non è impossibile e presuppone uno sforzo di regolamentazione, di tassazione e di ristrutturazione dei debiti dei paesi mediterranei. Una regolamentazione offensiva consisterebbe nel vietare a qualunque struttura finanziaria europea di speculare sui debiti sovrani degli stati membri attraverso i Cds, in modo da costringere gli speculatori più accaniti a spostarsi nei paradisi fiscali. Le banche che dovessero andare incontro a un fallimento sarebbero requisite e nazionalizzate. Una tassa europea sui redditi da capitale potrebbe essere applicata sotto il controllo dei governi nazionali. Un discorso simile potrebbe essere fatto anche per la tassa sulle transazioni finanziarie, che non è certo la panacea ma la cui applicazione si è fatta aspettare sin troppo. Di certo, se un controllo dei capitali dovesse di nuovo essere applicato per fermare il contagio finanziario nessuno ne morirà: gli stati non possono permettere di perdere la guerra ingaggiata contro i mercati finanziari, ne dipende la sopravvivenza di un sistema più o meno civilizzato.
INTRANSIGENZA BANCARIA O INTRANSIGENZA SOCIALE
La ristrutturazione dei debiti in sofferenza richiederebbe invece dall’Europa l’instaurazione di una procedura di insolvenza sovrana, paragonabile a quella che si trova nel capitolo IX della legge americana sulle bancarotte municipali – un’idea proposta da molto tempo da Kunibert Raffer, professore di economia all’università di Vienna. Questo dispositivo permetterebbe ai governi di mantenere i servizi essenziali per le loro popolazioni e al tempo stesso liberarsi dalla parte insostenibile dei loro debiti. Le banche verrebbero senza dubbio colpite da un’iniziativa del genere, ma spetta ai poteri pubblici limitare i danni garantendo i depositi bancari e controllare eventuali istituti in difficoltà in seguito ai piani di ristrutturazione. Del resto non bisogna troppo compatire le banche per i rischi nelle quali incorrono: il loro mestiere consiste nel guadagnare denaro, ma talvolta anche nel perderlo.
Riforme del genere porterebbero l’Europa a un super-stato capace di assumere le sue spese pubbliche a un tasso di interesse accettabile e di tenere testa alle agenzie di rating e ai mercati di Cds – in altre parole a uno stato intenzionato a controllare le sue banche piuttosto che a esserne controllato. La decisione spetta solo agli europei.
Si tratta senza dubbio di un cambiamento radicale. Ma si può ancora sperare in un’evoluzione che non lo sia? C’è ancora qualcuno che dubita che l’architettura neoliberista dell’Europa non sua destinata a crollare? L’alternativa è semplice: intransigenza disastrosa di bilanci di rigore o intransigenza costruttiva di piena occupazione. Intransigenza bancaria o intransigenza sociale.
Da giovane in qualità di assistente della commissione bancaria della Camera dei rappresentanti, partecipai nel 1975 alla creazione di un piano di salvataggio per la città di New York, che all’epoca si trovava in una grave crisi economica e finanziaria. Il nostro programma mirava a preservare le università e i trasporti pubblici; raccomandava inoltre di ristrutturare il debito municipale e di non lamentarsi delle perdite che ne sarebbero derivate per i proprietari di obbligazioni newyorchesi. Un giorno ricevetti una telefonata, era Averell Harriman, ex governatore di New York – ed ex ambasciatore di Roosevelt presso Stalin. Mi chiedeva di fare il punto sulla situazione dei nostri lavori.
L’ottantenne Harriman, appena rimessosi da una frattura al collo del femore, mi ricevette in pigiama su un divano della sua villa di Georgetown. Sul muro di destra uno dei Girasoli di Van Gogh, su un tavolino in vetro alla sua sinistra una ballerina di Degas. Davanti a questo museo privato, cercai di spiegare all’ex governatore perché i membri del comitato preferivano chiedere dei sacrifici ai ricchi piuttosto che ai poveri. Harriman annuì, si chinò in avanti sul suo bastone e disse con voce grave: “Capisco. Il capitale deve pagare, così come il lavoro”. Almeno su questo punto, non è cambiato nulla.

( JAMES K. GALBRAITH -  LE MONDE DIPLOMATIQUE – Il manifesto – GIUGNO 2010)

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