Perché mio figlio va alla scuola pubblica

Francis X. Rocca, The Wall Street Journal, Stati Uniti

La qualità dell’insegnamento in Italia è spesso eccellente. Migliore di quella di molti altri paesi

In Italia l’autunno coincide con l’inizio dell’anno scolastico e della stagione degli scioperi nelle scuole. Il 15 ottobre, per il secondo venerdì consecutivo, insegnanti, dirigenti e personale scolastico hanno protestato in varie città del paese contro la riforma proposta dal governo. Secondo i manifestanti, i tagli ai finanziamenti produrranno aule affollate e personale inadeguato, aggravando la situazione di un sistema che ha già poche risorse rispetto agli altri paesi sviluppati.

Mi rendo conto che, come padre, dovrei avere a cuore i dettagli della questione, ma la maggior parte degli italiani che conosco è convinta che questa riforma avrà lo stesso destino di quelle che l’anno preceduta, sarà cioè abolita dal prossimo governo prima ancora di essere attuata.

Molti problemi della scuola potrebbero essere ancora irrisolti tra dieci anni, quando nostro figlio si diplomerà

Con mia moglie, che è italiana, avevamo pensato di iscriverlo in una delle scuole anglofone di Roma. Poi, però, abbiamo scelto la scuola pubblica. Il costo delle rette delle scuole internazionali, tarate sui redditi dei diplomatici, con generose indennità per l’istruzione, ha certamente influito sulla scelta. Ma il fattore determinante è stato la qualità.

Viva il latino

A differenza di quello che succede in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, in Italia molti professionisti e perfino famiglie più ricche mandano i figli nella scuola pubblica, e spesso scherzano sugli istituti privati definendoli fabbriche di diplomi. In molti casi si tratta di un pregiudizio ingiusto e, come in tutti i servizi pubblici italiani, anche nelle scuole pubbliche la qualità varia a seconda dei casi. Le più serie, però, offrono un’istruzione per la quale i genitori di molti altri paesi pagherebbero senza battere ciglio.

Nelle scuole elementari italiane il metodo pedagogico è antiquato (spesso si usa ancora il tanto disprezzato apprendimento mnemonico, contro cui gli educatori statunitensi mettono in guardia da decenni) e gli insegnanti non fanno molto per coltivare l’autostima degli alunni. Nei colloqui tra genitori e maestri si parla molto degli errori dei ragazzi, mentre passa sotto silenzio quello che imparano.

Eppure, dopo essere stati trascinati da un infervorato alunno di terza elementare al Musée D’Orsay in cerca dei capolavori impressionisti, aver sentito uno di quarta parlare di australopitechi e big bang o uno di quinta recitare Saffo, è impossibile dubitare della bravura degli insegnanti italiani. I sistemi scolastici di molti altri paesi hanno completamente abbandonato lo studio delle lingue classiche, e l’idea che mio figlio studi latino e greco per cinque anni mi fa sperare che possa arrivare all’età adulta con un’intelligenza acuta.

L’istruzione è quindi uno dei motivi per cui sono contento di vivere a Roma, una delle cose a cui cerco di pensare nelle frequenti occasioni in cui perdo la pazienza per la spazzatura, il traffico e il caos. Tra gli altri motivi, ovviamente, il cibo e il clima, oltre alle rovine antiche che regalano in silenzio le loro lezioni di storia e umiltà. Di questi tempi, le scuole non sono le uniche istituzioni italiane ad avere problemi economici.

Due settimane fa il ministro della cultura Sandro Bondi ha avvertito che il sostegno statale al settore per il 2011 sarà di soli 262 milioni di euro, il più basso in vent’anni. Se la situazione non dovesse cambiare, possiamo aspettarci altre manifestazioni come quella di quest’estate alla Scala, quando l’orchestra del teatro milanese ha protestato contro i tagli eseguendo il Faust di Charles Gounod in jeans al posto del frac. In un paese in cui gli scioperi sul lavoro sono la norma ma vestirsi in modo inappropriato è uno scandalo, si tratta di una protesta molto radicale.

(Articolo pubblicato sul settimanale Internazionale -  22/28 ottobre 2010)

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