Invito alla lettura – Gesualdo Bufalino

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo, poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).
Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi così del repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Caduto il vento, la cui mano m’aveva a più riprese, come la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno, i miei passi, quelli di un’ombra. Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accennavano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, a qualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il più smunto, il più vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini, o come diavolo si chiama.
“Fermati”, gridavo “madre mia, ragazza, colomba”, mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.
(Gesualdo Bufalino – Dicerie dell’untore)

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