Quel che resta di Freud

LA PROFEZIA DEL DOTT. F. SAREMO SEMPRE NEVROTICI

UMBERTO GALIMBERTI (Repubblica 03.01.2010)

 

A settannt’anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa invece si è rivelato caduco. E’ questa una domanda legittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invalidare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza “esatta”, ma si iscrive nell’ambito delle scienze “storico – ermeneutiche”. E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profondamente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è possibile cogliere e descrivere solo con l’arte dell’interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.

Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tanti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoanalitiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di “nevrosi” che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi come una malattia del sistema nervoso come voleva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha trasferito dal piano “biologico” a quello “culturale”.

Lo ha fatto definendo la nevrosi come un “conflitto” tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super – io) che ne chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell’umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: “Di fatto l’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. Questa interpretazione del disagio psichico, che sposta la lettura della sofferenza dal piano biologico a quello culturale, è la grande scoperta di Freud, tuttora alla base delle successive teorie psicoanalitiche che, per quanto differenti tra loro, rifiutano di reperire le spiegazioni della sofferenza psichica esclusivamente nel fondo biologico dell’organismo.

A questa intuizione Freud è giunto grazie alla sua assidua frequentazione della filosofia e in particolare di quella di  Schopenhauer, che Freud considera suo “precursore”: “Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui “volontà inconscia” può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi”. Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la “soggettività delaa specie” che impegna gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la “soggettività dell’individuo”  che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere, senza vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.

Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole “io” e “inconscio”. Nell’inconscio occorre distinguere un inconscio “pulsionale” dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio “superegoico” dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza la quale la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l’aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l’io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue “passioni”, che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti.

Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c’è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l’equilibrio dell’io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l’io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia. La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell’alleanza dell’io può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell’io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo senza una spazio di mediazione.

Ma proprio perché la psiche è “storica” e perciò muta col tempo, non si può essere fedeli a questa grande intuizione di Freud, se non superando Freud, perché il suo concetto di nevrosi ben si attaglia a una “società della disciplina” dove la nevrosi è concepita come un “conflitto” tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Oggi la società della disciplina è tramontata, sostituita dalla “società dell’efficienza” dove la contrapposizione tra “il permesso e il proibito” ha lasciato il posto a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra “il possibile e l’impossibile”.

Che significa tutto questo agli effetti della sofferenza psichica? Significa, come opportunamente osserva il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.

In questo modo, dagli anni Settanta in poi, il disagio psichico ha cambiato radicalmente forma: non più il “Conflitto nevrotico tra norma e trasgressione” con conseguente senso di colpa ma, in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, la sofferenza origina da un “senso di insufficienza” per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Per effetto di questo mutamento, scrive Ehrenberg: “La figura del soggetto ne esce in gran parte modificata. Il problema dell’azione non è : “o il diritto di compierla?” ma: “sono in grado di compierla?”. Dove un fallimento in questa competizione generalizzata, tipica della nostra società, equivale a una non tanto mascherata esclusione sociale.

De resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai singoli individui, ne Il disagio della civiltà si chiedeva: “Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati “nevrotici” per effetto del loro stesso sforzo di civiltà (…) pertanto non provo indignazione quando sento chi considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile”.

Alla domanda iniziale cosa resta di Freud a settant’anni dalla sua morte? Rispondo: l’aver sottratto il disagio psichico alla semplice lettura biologica, l’averlo collocato sul piano culturale, l’aver intuito per effetto di questa collocazione che il disagio psichico si modifica di epoca in epoca, per cui compito della psicoanalisi, più che attorcigliarsi nelle diverse denominazioni delle nevrosi, è quello di individuare le modificazioni culturali che caratterizzano le diverse epoche, che tanta ripercussione hanno sulla modalità di ammalarsi “nervosamente”.

 

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Piccole fragili verità

Parola di imam

Anche durante le feste cresce la paur delle violenze tra gruppi rivali

Zuhair al Jezairy -Internazionale 814, 24 settembre 2009

Secondo la tradizione il giorno dell’Eid el Fitr, che segna la fine del Ramadan, viene celebrato insieme ai parenti. Anche le famiglie che non hanno l’abitudine di riunirsi spesso si ritrovano per festeggiare insieme questa ricorrenza. Per i leader religiosi musulmani i fedeli dovrebbero approfittare dell’Eid per rafforzare i legami di fratellanza e solidarietà.

Il suggerimento è rivolto anche ai partiti politici in vista delle elezioni del gennaio 2010. Molti, infatti, temono un aumento delle violenze tra i gruppi rivali. Ci sono tensioni tra turkmeni e curdi a Kirkuk, tra il governo centrale di Baghdad e il Governo regionale autonomo curdo, tra sunniti e sciiti, tra l’Iraq e la Siria. Faiq, un commerciante di 71 anni, ha paura: “Chissà cosa ci aspetta nei prossimi giorni! Sembra che sia stata disinnescata appena in tempo una bomba nel santuario dell’imam Ali a Najaf. Potrebbe scatenarsi una nuova spirale di violenze”.

Gli dico che secondo me non precipiteremo un’altra volta nel caos del 2006. “Non hai capito come stanno le cose”, ha ribattuto un cliente attempato che comprava dei dolci per l’Eid. “Il terrore favorisce il settarismo. Noi iracheni dovremmo seguire i consigli del nostro imam e venirci incontro infrangendo le barriere della paura”.

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Sabato 19.12.2009 – h. 19.00 – Mariolina Venezia – Pierpaolo Principato

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TOGUFILM – VENERDI’ 11.12.2009 – H. 21.15

ZABRISKIE POINT

Un film di Michelangelo Antonioni. Con Paul Fix, Rod Taylor, Mark Frechette, Daria Halprin, Bill Garaway, Harrison Ford, Lee Duncan, Jim Goldrup, Peter Lake, G.D. Spradlin, Kathleen Cleaver, Barbara Button, Michael L. Davis
Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 112 min. – USA 1970 
L’amore tra una ragazza benestante e uno studente ribelle di Los Angeles che ruba un aereo alla ricerca della libertà. Finale profetico esplosivo in forma di apocalisse capitalistica. La sproporzione tra idee e apparato figurativo, tra esilità della storia e terribilità della conclusione irritò la critica americana, ma l’esilità (la superficialità) non è soltanto della storia: è l’invenzione registica che bisogna mettere in discussione, è la pregnanza figurativa che manca, sostituita da una compiaciuta lussuria fotografica (Alfio Contini). È il film di un provinciale che punta al grandioso. Sam Shepard collaborò alla sceneggiatura. Una buona colonna rock con (fra gli altri) Pink Floyd, Grateful Dead e Rolling Stones.

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Sabato 12.12.2009 – H. 17.00 – I Pupi di Stac – “Giovannin senza paura”

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TOGUFILM – VENERDI’ – 04.12.2009 – H. 21.15

Venerdì, 04.12.2009 alle ore 21.15, per il TOGUFILM sarà in visione: “Il fascino discreto della Borghesia” di LUIS BUNUEL.

 I Thévenot e i Sénéchal continuano a scambiarsi inviti per un pranzo, ma non riescono mai a mangiare. Scritto col fido Jean-Claude Carrière, questo opus n. 30 dello spagnolo di Calanda è forse il suo film più francese e squisito: la trovata del Pranzo Continuamente Interrotto potrebbe far da motore a una commedia di boulevard. L’angelo sterminatore ha in mano il fioretto dell’ironia e lo maneggia con grazia incantevole, ma, surrealista sereno e sorridente, ricorre all’esplosivo onirico per far saltare in aria la borghesia e i suoi pilastri: polizia, chiesa, esercito. I sogni non servono a evadere dalla realtà, ma a farla conoscere più profondamente. Un compendio di tutto il cinema buñueliano.

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TOGUFILM – VENERDI’ 27-11-2009 – H. 21.15

Venerdì, 27.11.2009 alle ore 21.15, presso la sede dell’associazione di Via Fortebraccio 1, per il TOGUFILM sarà in visione:

Harold e Maude

Harold e Maude è un film del 1971, diretto da Hal Ashby.

Harold è un agiato diciottenne stanco della vita che passa le sue giornate ad inscenare finti suicidi contro la madre e a recarsi a funerali di persone che non conosce. Durante una di queste celebrazioni conosce Maude, un’anziana donna prossima al compimento dell’ottantesimo compleanno. Ormai prossima alla morte, Maude è grande amante della vita, al contrario di Harold, costretto dalla figura pressante della madre ad una vita da incompreso. Insieme vivranno piccole avventure, facendo scoprire ad Harold le bellezze della vita, che fino ad allora non aveva compreso….


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CINEFORUM – venerdì 13 novembre 2009

Venerdì 13 novembre alle ore 21.15, presso la sede dell’associazione di Via Fortebraccio, 1, per il cineforum proietteremo il film “I compagni” di Mario Monicelli, con Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Annie Girardot B/N – durata 128 min. – Italia 1963

Torino, fine Ottocento. In una fabbrica tessile, l’ennesimo grave incidente spinge gli operai a richiedere migliori condizioni di lavoro. Quando la loro richiesta di ridurre l’orario di lavoro da quattordici a tredici ore viene del tutto ignorata, decidono di compiere un gesto dimostrativo, suonare la sirena di fine turno in anticipo di un’ora, che procura però una multa a tutti e una sospensione a Pautasso, l’autore materiale. Gli operai organizzano quindi uno sciopero, approfittando dell’esperienza in materia dell’esperto professor Sinigaglia, appena giunto in città proveniente da Genova, ricercato dalla polizia per aggressione ad un pubblico ufficiale durante una manifestazione. I padroni per risolvere la situazione sono disposti a ritirare multa e sospensione e “perdonare” gli operai influenzati da “agitatori di professione”, ma gli operai non possono accettare una concessione così modesta rispetto al livello ormai raggiunto dalla protesta….

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CARCERE E INDULTO di Adriano Sofri

CARCERI
QUANDO LA PUNIZIONE DIVENTA INFERNO
Adriano Sofri
Per conoscere un paese, vai a guardare le  sue galere. Bella frase, eh? Lo ripetono in tanti, non ci crede quasi nessuno. Le galere sono inguardabili, per definizione. Vi si compiono pratiche di cui non vogliamo sapere niente, nella realtà: nei film invece ci piace moltissimo. I film sono fatti apposta per accontentare la nostra voglia di guardare cose inguardabili: tanto è un film, non ci impegna, finisce e andiamo a dormire contenti. Ora si è capito che la politica è questione di corpi. Aggiustiamo la frase: se volete conoscere la politica dei corpi, andate a guardare le galere. Prima ancora che gli ospedali, perché le galere sono anche ipeggiori degli ospedali.
La giustizia – non dico la bella aspirazione a qualcosa che non esiste, ma la sua professione: tribunali, giudici, processi – si ferma alle soglie del carcere, quando gli accusati o i condannati vengono passati ai birri. Là cessano di essere persone, e perfino di essere diversi fra loro. Non importa che siano innocenti incarcerati in attesa di un giudizio che li scagionerà, assassini di donne, o stranieri non in regola e basta. Sono corpi consegnati come si consegna un umiliato animale alle gabbie di uno zoo. Così si entra, e si lasciano alla matricola i propri effetti personali, un anello, la cintura e i lacci, la fotografia di fronte e di profilo, le impronte dei polpastrelli, e l’anima. I corpi devono essere denudati, perché sia piena la loro spoliazione. Nudi, una flessione, o più, una perquisizione anale, la consegna dei lenzuoli, se non sono finiti, e l’inoltro alla gabbia. L’ho pensato tante volte, e lo pensano tutti gli avventori di quel pozzo, agenti penitenziari ed educatrici, medici e suore, direttori e infermieri: come mai sono così pochi a suicidarsi in galera? Solo 61 in dieci mesi, per esempio, quest’anno. Come mai così pochi si feriscono, si tagliano, si mutilano? Solo alcune migliaia all’anno. Si prova una gran pena per i suicidati e gli ammazzati. Ma un vero sgomento per gli altri. Come hanno fatto a passare l’estate? Ve li ricordate, i giorni torridi dell’estate appena trascorsa? Era dura restare in spiaggia nelle ore meridiane, eh? In una qualunque delle galere si stava chiusi 20 o 22 ore al giorno dentro celle dalle sbarre arroventate e porte blindate in uno spazio inferiore a quello che le leggi assicurano ai pollai.
Quasi 30 mila persone all’anno entrano in galera per uscirne nel giro di tre giorni. Sensazionale, no? E per ognuno tutta la liturgia: lasciare l’anello e la cintura e l’anima, e le flessioni… Pazzia, naturalmente. Ma le pazzie sono difficili da affrontare, quando sono abituali, e basta voltare la testa dall’altra parte. In questi giorni una catena di episodi normalmente infami, ma imprevedibilmente documentati, inducono a non voltare la testa. Passerà presto. Si dimenticheranno le frasi meravigliose: Cucchi caduto dalle scale, il colonnello che avverte che una camera di sicurezza non è un albergo a cinque stelle, l’ufficiale che spiega che il massacro va eseguito al piano di sotto se no il negro lo vede, il sindacalista che spiega che tecnicamente massacro vuol dire richiamo verbale. Ci sono quasi 66 mila detenuti per una capienza di 41 mila. Se non ci fosse stato l’indulto, sarebbero più o meno 90 mila per una capienza di 41 mila. Un esperimento di fisica solida memorabile. E dell’indulto, avete ancora così orrore? Tanto allarme sul favore scandaloso fatto a Previti: avete più sentito nominare Previti? Però vi siete sentiti dire che l’indulto – votato a grandissima maggioranza dai due schieramenti, e ripudiato un minuto dopo da ambedue, per viltà – ha fatto impennare la criminalità e la recidiva. Non era vero. Vi hanno detto che non era vero? Macché: vi hanno detto che le carceri si erano riempite di nuovo, che i disgraziati usciti si erano sbrigati a rientrarci. Ci hanno anche scherzato su, come si scherza sulle scenette ridicole. Alla sufficiente distanza di tre anni le cose stanno così: che fra chi sconti l’intera pena in carcere il tasso ordinario di reciidiva supera il 68 per cento, e invece fra chi ha beneficiato dell’indulto la recidiva è stata del 27 per cento. Dunque ben più che dimezzata. Col dettaglio quasi comico, rispetto agli anatemi che corrono, che fra gli stranieri la recidiva è ancora più bassa. E vi hanno detto che, con l’eccezione del Napoletano, le cifre complessive sulla criminalità sono in forte diminuzione nel periodo 1992-2009, a cominciare dagli omicidi volontari, ridotti a un terzo? Si è tanto gridato contro la vergogna dell’indulto (povero Papa!) da impedire che fosse seguito dal suo complemento indispensabile, e riconosciuto indispensabile da tutti gli addetti, a cominciare dai magistrati: l’amnistia, che non avrebbe messo fuori nessun altro, ma avrebbe estinto una mole ormai superflua, dunque disastrosa, di procedimenti. E si è sabotato il lungo lavoro di un’ennesima commissione incaricata di riformare il codice penale. Ipocrisia di centrodestra e demagogia di giustizieri hanno fatto sì che l’indulto sia apparso come opera esclusiva del governo Prodi, e ne abbia segnato il discredito: un caso di omicidio suicidio politico. E un esempio del modo in cui il pregiudizio innamorato della galera (altrui) massacri i malcapitati che ci finiscono dentro, ma giochi anche l’intera partita del governo di un paese. E non è singolare che un capo di governo di centrodestra insidiato per anni dall’ombra della galera la sventi di volta in volta con le leggi e gli espedienti per sé, e non sia tentato per un momento di dare un’occhiata a come ci stanno, in galera, quegli altri 65 mila? Ci stanno bene, l’estate è passata. Fra poco farà un freddo meraviglioso.
ADRIANO SOFRI Diario di Repubblica del 5 novembre 2009

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Invito alla lettura – Gesualdo Bufalino

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo, poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).
Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi così del repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Caduto il vento, la cui mano m’aveva a più riprese, come la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno, i miei passi, quelli di un’ombra. Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accennavano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, a qualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il più smunto, il più vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini, o come diavolo si chiama.
“Fermati”, gridavo “madre mia, ragazza, colomba”, mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.
(Gesualdo Bufalino – Dicerie dell’untore)

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