Scritture

MASSA E POTERE

Capovolgimento del timore di essere toccati

Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza: è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.

Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all’improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. Molto di questo concetto è entrato nel duplice significato della parola angreifen (protendersi per prendere, per toccare). Vi si trovano insieme sia il contatto innocuo sia l’aggressione pericolosa, e qualcosa di quest’ultima è sempre presente anche nel primo. Nel sostantivo Angriff (aggressione) è però rimasto soltanto il significato negativo.

La ripugnanza di essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli. Se facciamo l’opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno; nostra è quindi l’iniziativa di avvicinarci a lui.

La prontezza con cui gli altri si scusano se ci toccano involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l’odio che proviamo per il “malfattore” – anche se non possiamo essere affatto certi che sia stato lui – tutto questo groviglio di reazioni psichiche intorno all’essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci conferma  che si tratta di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona. Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo facilmente da un timore di questo tipo.

Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore d’essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. E’ necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi “ci sta addosso”. Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo di essere toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il più compiutamente possibile dal timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa. Il sollievo che si estende in essa – e di cui si parlerà in un altro contesto – assume proporzioni vistose nelle masse estremamente dense.

(Elias Canetti – Massa e potere – 1960 Claassen Verlag Hamburg – Ed. It. 1981 Adelphi Edizioni S.P.A. Milano)

DOUCE FRANCE

LA VILTA’ DI SARKOZY

Marco d’Eramo

E così oggi saranno 700 zingari a pagare il conto per la miliardaria evasione fiscale della donna più ricca di Francia Liliane Bettencourt, erede dell’impero de L’Oréal. Questo scandalo infatti ha indebolito a tal punto il presidente Nicholas Sarkozy da spingerlo a compiere qualunque passo, anche il più inumano, il più demagogico, il più incostituzionale, persino il più inutile, pur d’invertire la caduta libera della sua popolarità nei sondaggi d’opinione, che si era già constatata nelle elezioni regionali di marzo quando aveva preso una bella batosta. E in un periodo di crisi economica – come si vide in Germania negli anni ’30 -, non c’è strategia più popolare che quella di cercare il capro espiatorio e alimentare una bella vampata di xenofobia. Perciò il presidente ha proposto di togliere la cittadinanza a quei cittadini di “origine straniera” che uccidono o feriscono un poliziotto. Perciò ha smantellato 51 accampamenti gitani. Perciò oggi la Francia comincerà a deportare 700 zingari, come se il problema dell’insicurezza venisse da quei 15.000 rom che vivono in Francia ( su circa 60 milioni di residenti). Questa deportazione è illegale, poiché gli zingari sono cittadini europei (nel 2007 Romania e Bulgaria sono entrate nell’Unione europea) cui è garantità libertà di movimento e residenza all’interno dell’Ue. Va contro le sollecitazioni del Consiglio d’Europa che ha esplicitamente invitato i governi membri a non espellere i rom. E’ inumana perché disintegra famiglie e allontana persone che – a volte da generazioni – vivono sul suolo francese, e taluni erano diventati cittadini francesi. Certo, in Europa prendersela con gli zingari è sempre stato lo sport per cui i potenti sono sempre andati matti. In senso letterale: la caccia allo zingaro era praticata a cavallo e con le mute dei cani dagli aristocratici europei nel ‘500, proprio come la caccia alla volpe è popolare tra i gentleman inglesi. Contro i rom, i nazisti praticarono la stessa politica di sterminio che usarono verso gli ebrei. Ma anche nel genocidio i rom furono discriminati e il loro olocausto non è mai stato riconosciuto, né tanto meno risarcito. Non a caso perciò, persino un deputato del partito di Sarkozy ha paragonato la deportazione di oggi alle retate di ebrei francesi durante la seconda guerra mondiale. Sprigiona un rancido retrogusto di viltà questa politica di Sarkozy. Che, per finire, è totalmente inutile e quindi squisitamente demagogica: negli ultimi anni il governo francese ha espulso ogni anno circa 8.000-8.500 rom. Eppure continua a essere stabile il numero degli zingari in Francia, intorno ai 15.000. Vuol dire che con la tenacia a cui sono allenati gli oppressi, i rom cacciati tornano; ricacciati, tornano ancora. Francesi a modo loro, ma incrollabilmente francesi. Una volta la Francia si vantava di essere terra d’asilo. Si vantava degli “immortali” principi del 1789. Ma evidentemente il fatuo consorte di Carla Bruni con questi sacri principi – ci si passi l’espressione – ci si pulisce.

(da Il Manifesto del 19 agosto 2010)

BUONE VACANZE

CAMPAGNA

Andare per campagne non è più una gioia. Improvvisamente, qualcosa è cambiato in un paesaggio che non cambiava da quattromila anni, quello delle terre coltivate, e l’anima dell’uomo si è rattristata.
Pensavamo, vivendo in città, che sarebbe sempre esistito, lontano dal maleficio delle vie, dai grandi serpenti cloacali, dagli anelli periferici dove un muro invisibile fermava i tram, dalle concentrazioni di sforzi e di pena, di crudeltà e di godimento troppo elevate, un mondo non tutto contaminato, un dolore meglio sopportato, una miseria più pulita, una fatica meno impura, una benda per le ferite dei nervi, una possibilità di incominciare una vita diversa, una riserva inesauribile di nutrimento fresco e di acque, una religione astrale delle consuetudini che ci scampasse dai cambiamenti troppo rapidi, spegnesse nell’indifferenza le febbri della capitale, non tradisse la fedeltà di chi nasceva e le speranze di chi gli si convertiva. Tutto questo chiamavamo campagna. Averla conosciuta prima che un malvagio incantesimo la stringesse, mentre la città franava nella catastrofe, è stato un bene perfetto, anche se una felicità bevuta è sempre madre di eccessivo rimpianto, e credo siano da compiangere le generazioni che ormai, nate o non nate in campagna, potranno vederla soltanto come un prolungamento, una gareggiante metastasi della città, una pagina di etnografia incollata sui miasmi, un malinconico diorama di vita animale e vegetale ammorbata e disseccata.
Una delle più offensive stupidità che si sentono dire dalla malavita laureata, indottrinata e disumanizzata è che bisogna ridurre sempre più l’antitesi citta-campagna.  Non è certo come un impossibile ritrapiantarsi di orti e di ulivi nei morti tessuti urbani che questa ottusa canaglia immagina la sua riduzione dell’antitesi. Sa che si tratta di una via a senso unico: l’estensione dei mali urbani (frettolosamente elencabili come inquinamento totale, sradicamento, perdita dei mestieri e del rapporto commerciale, infoltimento del crimine, depressione del rigettato, naufragio nel rumore) a ogni resto, a ogni avanzo, a ogni barlume superstite di campagna.
La conosco questa campagna dove si è venuta via via riducendo la famosa antitesi, e davanti ai suoi tratti deturpati l’orrido puro, il deforme puro, la malattia assoluta della città mi sembrano meno laidi e meno sconfortanti. E’ una campagna che somiglia a una bambina bellissima, che un cancro ha devastato in un solo lato del viso, cancellandone un occhio, e lasciando l’altro aperto per lo stupore e il silenzioso rimprovero. E’ una campagna umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa reagire all’incantesimo. Va allo spaccio dei veleni e li compra a quintali, per spargerli gelidamente sulle colture. Telefona all’elicottero e lo invita ad avvelenargli la proprietà. Con gli anticrittogamici di alta tossicità, con le macchine agricole a nafta, s’introduce i veleni nella pelle, nel sangue, nei polmoni. La morte dei campi è fruttuosa: le patate dell’Angelus si ritirano al Bancomat.
Ma il male urbano, che sta dirigendo i suoi raggi di morte su tutte le campagne, è così profondo che non si può misurarlo tutto e con precisione. Il mio piccolo catalogo di mali è soltanto un’ossevazione di giornalista che non ha tempo e arte di vedere altro prima di ripartire. Il quadro dei sintomi non ci dà la chiave di questa lebbra, che si sottrae alla nostra penetrazione razionale. C’è un ballo di sintomi da fare impazzire le diagnosi. Il moderno male urbano è forse soltanto uno dei grandi momenti di libidine e di straripamento del Male, fondamento del mondo, dal quale l’illusione della campanga come realtà permanente, rifugio sempre pronto, distacco fisico dal miasma (esemplare la fuga in villa dalle città colpite dal colera o dai bubboni), divinamente, coi suoi paesaggi antitetici, le sue libertà promesse, ci distoglieva.
Questa illusione so che non la ritroverò più uscendo dalla citta e andando verso la campagna. So di agitarmi sempre, qualunque strada pigli, nella stessa prigione. La ritrovo leggendo qualche poeta, che ha avuto la fortuna di poter trascrivere la pienezza dell’illusione nel proprio linguaggio, dove non si è perduta, Virgilio, Leopardi o Verlaine, e guardando qualche pittura, dove si vedono paesaggi inverosimili, vere Gerusalemme celesti, meraviglie edeniche (e sono soltanto inverni ed estati), in cui il guasto umano nella natura, lacerazione lontana, incancellabile, si presenta in deliziosi e musicali travestimenti, addirittura come l’attuarsi dell’ordine divino nel caos; e so che la vera campagna è ferma nel gioco di quella finzione, e che la fuga in lei non è più possibile se non passando attraverso gli specchi lontani che la rinfransero.

(tratto da La carta è stanca – Guido Ceronetti – Adelphi Edizioni spa – 2000)

QUALE EUROPA FRENERA’ I MERCATI?

La decisione unanime fra i governi europei: per contenere gli assalti della finanza saranno necessarie misure rigorose di bilancio e tagli degli stipendi. Una soluzione ideale per portare l’economia sulla strada della deflazione e aggravare i problemi sociali. E se si pensasse a qualcosa di completamente diverso?

di JAMES K. GALBRAITH

All’inizio di gennaio, il governo greco ha convocato in tutta fretta un aeropago di esperti in economia. Tra di loro un funzionario del Fondo monetario internazionale (Fmi) ha spiegato la necessità di smantellare il sistema pubblico assistenziale. Un altro consigliere, dell’Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (Ocse), ha affermato in tono gioviale : “Una decisione che fa inorridire tutti, compresi i vostri sostenitori, può essere solo una buona decisione”.
Il teorema che è alla base di queste idee è ben noto: i mercati ordinano agli stati di stringere la cinta. Chi acquista azioni è l’unico giudice dei piani di austerità consentiti dai governi, è il solo che decide se bisogna dare fiducia alla capacità di uno stato di rimborsare il proprio debito. Se un paese si sottomette a una rigorosa politica di bilancio, i tassi di interesse ridiventano sopportabili – e i rubinetti del credito si apriranno di nuovo.
Questa teoria presenta però un grave difetto: le promesse non costano nulla. Anche quando gli stati si faranno in quattro per far piacere ai mercati, ci vorrà del tempo prima che le misure di austerità entrino in vigore e raggiungano i loro obiettivi. Il rifinanziamento di un debito preesistente si basa sull’annuncio di riforme che non hanno ancora avuto luogo, cioè sulla fiducia che i mercati accordano alla buona fede del debitore. Ma in che modo uno stato ritenuto irresponsabile può ispirare questa fiducia? Per quanto la Grecia faccia promesse solenni sulla sua determinazione nello spogliare funzionari e pensionati, il suo debito arriverà a scadenza prima della realizzazione delle sue promesse. Tutto ciò porta a un grave paradosso: più Atene si impegna a ridurre le spese e più i mercati che cerca di compiacere si fanno diffidenti.
Questa situazione ha rovinato l’idea in base alla quale un programma di rigore è sufficiente a sbloccare il mercato del credito a condizioni accettabili per il paese. L’unico mezzo per evitare il fallimento risiede quindi in un’iniezione massiccia di fondi europei ai canali del Mercato. Per il governo greco la questione è diventata: come persuadere l’Unione europea a mettere mano al portafoglio?
Questo problema ha dato alla crisi economica un carattere molto più politico. In altre parole Atene deve continuare i suoi annunci di tagli drastici e di “riforme”, non per rassicurare i mercati ma per soddisfare Angela Merkel. A quanto pare l’elettorato del cancelliere tedesco sarebbe disposto a tollerare il “piano di salvataggio” solo a condizione che il popolo greco sopporti dei sacrifici spettacolari. Nel frattempo il governo di Georges Papandreou ha fatto pubbliche dichiarazioni di fedeltà all’euro e ai suoi creditori, ricordando a Parigi e a Berlino che l’ipotesi di un rifiuto di risanamento della Grecia trascinerebbe nella sua rovina la Spagna e il Portogallo.
Sul piano economico questo scenario lascia perplessi. Le misure di austerità promesse produrranno più disoccupazione e meno entrate fiscali, non ci si deve quindi aspettare una riduzione sensibile del deficit di bilancio. Inoltre tagliare i consumi greci – come raccomandato dal programma del Fondo monetario internazionale (Fmi) – si tradurrà in perdite di posti di lavoro nelle industrie tedesche e francesi che vendono parte delle loro merci in Grecia.
E poiché l’euro impedisce qualunque svalutazione, non si può neppure sperare in un aumento di competitività. Per di più le misure suscettibili di portare una momentanea boccata di ossigeno – cioè i tagli nella funzione pubblica e le riforme fiscali – saranno ancora più difficili da applicare in un clima socialmente difficile e con dei tassi di interesse esorbitanti.
Mentre il conto alla rovescia si avvicina alla fine, i dirigenti europei si dibattono fra i loro regolamenti contorti, un’Unione sempre più di cartapesta, i problemi politici interni e una limitata percezione del problema. Alcuni responsabili ribadiscono con fanatismo l’idea che tagli evidenti nelle spese pubbliche favorirebbero la crescita economica. In realtà la loro analisi porta al disastro. E poiché il cancelliere tedesco sembra aver rifiutato l’opzione di un piano di salvataggio, un’ondata di panico si è abbattuta sulla zona euro: la quotazione dei contratti assicurativi contro il fallimento (credit default swaps o Cds) si è improvvisamente impennata per la Spagna, per il Portogallo e per le loro banche, sintomo della fragilità di un sistema finanziario europeo in cronica mancanza di garanzie di depositi su scala europea. Alla fine la Merkel ha dovuto suo malgrado consentire al piano di salvataggio.
Gli eventi hanno presto portato i protagonisti della tragedia a una seconda rivelazione: la decisione di proteggere la Grecia dal fallimento ha rialimentato le tensioni invece di allentarle. Se per esempio si possiedono dei titoli del debito portoghese e di fronte all’incertezza del loro rendimento si decide di venderli o di comprare un Cds, la conseguenza è un’ulteriore svalutazione del debito, rendendo ancora più difficile per Lisbona ottenere nuovi prestiti. Per i mercati finanziari il mezzo migliore per garantire i pagamenti consisterebbe nel chiudere il mercato delle obbligazioni private e – come ha fatto la Grecia – nel ricattare l’Unione europea. In questo modo un piano di salvataggio sarebbe quasi certo, tanto più che il Portogallo gode di una reputazione di paese meno “irresponsabile” della Grecia. Dopo il Portogallo sarebbe la volta della Spagna.
PARODIA DI AUTORITA’
In altre parole, gli speculatori detengono il potere di imporre un’”europeizzazione” dei debiti mediterranei. Ed è questo potere che abbiamo visto all’opera a metà maggio. Il panico delle capitali europee obbedisce allo stesso meccanismo che ha fatto tremare gli Stati uniti nel settembre 2008: l’eccessiva pressione esercitata dai mercati su dei politici indecisi.  Come qualunque vittima di un ricatto, il presidente francese Nicolas Sarkozy è andato su tutte le furie. A sua volta, in una farsa di autorità politica, il cancelliere Merkel ha annunciato il divieto di vendita allo scoperto “nuda” (tecnica che permette agli speculatori di vendere dei titoli che non possiedono) per le obbligazioni di stato. Ma si tratta di rappresaglie tutt’altro che dissuasive. Del resto che altro potevano fare? La vendita di obbligazioni o di Cds di Grecia, Portogallo o Spagna può essere fatta fuori dall’Europa – ad esempio a New York o alle isole Cayman. Al minimo sentore di una pressione, gli speculatori si riuniscono e lanciano un nuovo attacco.
Per un certo tempo le centinaia di miliardi di euro mobilitati dall’Unione europea hanno calmato la situazione. Ma rapidamente ci si è resi conto che gli stati membri possono trovare il denaro solo prendendolo a prestito gli uni dagli altri, perché è impossibile per loro creare nuove riserve, così come incoraggiare simultaneamente la crescita e assorbire i debiti. Questa funzione può essere fatta solo dalla Banca centrale europea (Bce). All’inizio della crisi il ruolo svolto da quest’ultima è stato poco chiaro. Contro i suoi stessi principi, la Bce ha finito per comprare titoli di stato. In questo modo ha preso il controllo del problema del debito, ma a prezzo di un euro più elastico. Di conseguenza l’euro non si presenta più come una valuta “forte” e si avvia verso un ineluttabile declino. Le febbrili dichiarazioni del presidente della Bce, Jean – Claude Trichet, che non avrebbe “cominciato a sfornare nuove banconote”, ma che si sarebbe limitato a riciclare i depositi a termine, non hanno fatto che aumentare la confusione; con il passare del tempo si è fatto strada il sospetto che i dirigenti dell’Unione fossero disorientati. Con il risultato di provocare un vero e proprio clima di panico.
Questa tempesta è almeno servita a delineare tre pilastri di saggezza finanziaria. Il buon funzionamento del sistema presuppone l’esistenza di uno stato più influente di qualunque mercato; deve agire per assicurare i pagamenti del debito pubblico – sul modello della Federal Reserve americana – altrimenti i mercati hanno la meglio sui poteri pubblici in base al principio “divide et impera”. L’Europa ha fatto ricorso a immensi sforzi per creare un “mercato unico”, ma senza darsi i mezzi per controllarlo e decretando che la Bce non inietterà valuta supplementare nel sistema. In questo modo l’Ue ha creato dei mercati più potenti degli stati e degli stati pieni di debiti che si ritrovano sull’orlo del fallimento. Solo la Bce può rimediare a questa situazione, abbandonando le regole che la ostacolano.
Fino a che punto adotterà la politica di iniezione di liquidità seguita dalla Federal Reserve nell’autunno 2008? Una cosa è certa, anche se la Bce dovesse andare fino in fondo in questo cambiamento e mettere fine alla crisi finanziaria, la crisi economica continuerà ad amplificarsi . Infatti ogni paese “salvato” riceverà solo i capitali necessari per pagare i suoi creditori, in cambio di una riduzione drastica delle sue spese pubbliche. Le banche ne usciranno vincenti, ma non la popolazione. L’uomo dell’Fmi consultato dal governo greco avrà vinto la sua scommessa e l’Europa sprofonderà nella recessione.
A meno che la Bce non cambi posizione, che le forze sociali che hanno costruito lo stato assistenziale si mobilitino per difenderlo, e che l’Unione europea si renda conto delle sue disfunzioni costituzionali, derivanti dall’inesistenza di un dispositivo di stimolazione macroeconomica.
L’Unione avrebbe bisogno di un regime fiscale integrato, di una banca centrale dedicata alla ricchezza economica e di un settore finanziario non più in grado di nuocere. Ma le manca soprattutto un meccanismo di bilancio automatico destinato alla piena occupazione, che limiti la recessione e compensi il calo della domanda nelle sue regioni più povere. Un sistema del genere dovrebbe basarsi sull’azione governativa e su quella dei cittadini.
Da un punto di vista puramente tecnico, esistono mezzi abbastanza semplici per realizzare questo obiettivo. La creazione di un’Unione europea delle casse pensioni potrebbe servire ad esempio per armonizzare il livello delle pensioni fra i paesi membri, in modo che gli ex lavoratori di Portogallo, Grecia o Spagna beneficino delle norme in vigore nei paesi più avanzati. Allo stesso modo si può immaginare un sistema integrato tale da garantire uno stipendio minimo decente a tutti i lavoratori dell’Unione. Una Banca europea di investimento potrebbe finanziare la creazione di università transnazionali e garantire un insegnamento di qualità da nord a sud. Il principio fondamentale è che l’unica risposta appropriata alla disoccupazione di massa e ai deficit di bilancio che ne risultano consiste nell’accrescere le spese pubbliche, non nel diminuirle.
Qualcuno obietterà che uno scenario del genere porterà a tassare i tedeschi per favorire i greci. Ma quest’argomento non ha alcun senso dal punto di vista economico. Si tratta piuttosto di mobilitare le risorse non utilizzate in tutta Europa e di integrarle nel circuito produttivo. Un orientamento del genere non comporterà un costo supplementare per chi dispone già di un posto di lavoro, poiché la fornitura di beni e servizi destinati a tutti si svilupperà in modo rapido. Un sistema fiscale integrato permetterebbe invece di frenare l’evasione fiscale che rovina la Grecia e altri paesi dell’Europa meridionale. Indubbiamente le riforme implicano delle imposte più pesanti, ma queste colpirebbero i ricchi nei paesi poveri e non i poveri nei paesi ricchi.
L’esperienza di questi ultimi mesi suggerisce che la tanto attesa ripresa potrà difficilmente prodursi fino a quando i mercati conserveranno la loro forza d’urto; sottolinea quindi la necessità di disinnescare il settore finanziario per impedirgli di minacciare l’Unione europea. Anche in questo caso il compito non è impossibile e presuppone uno sforzo di regolamentazione, di tassazione e di ristrutturazione dei debiti dei paesi mediterranei. Una regolamentazione offensiva consisterebbe nel vietare a qualunque struttura finanziaria europea di speculare sui debiti sovrani degli stati membri attraverso i Cds, in modo da costringere gli speculatori più accaniti a spostarsi nei paradisi fiscali. Le banche che dovessero andare incontro a un fallimento sarebbero requisite e nazionalizzate. Una tassa europea sui redditi da capitale potrebbe essere applicata sotto il controllo dei governi nazionali. Un discorso simile potrebbe essere fatto anche per la tassa sulle transazioni finanziarie, che non è certo la panacea ma la cui applicazione si è fatta aspettare sin troppo. Di certo, se un controllo dei capitali dovesse di nuovo essere applicato per fermare il contagio finanziario nessuno ne morirà: gli stati non possono permettere di perdere la guerra ingaggiata contro i mercati finanziari, ne dipende la sopravvivenza di un sistema più o meno civilizzato.
INTRANSIGENZA BANCARIA O INTRANSIGENZA SOCIALE
La ristrutturazione dei debiti in sofferenza richiederebbe invece dall’Europa l’instaurazione di una procedura di insolvenza sovrana, paragonabile a quella che si trova nel capitolo IX della legge americana sulle bancarotte municipali – un’idea proposta da molto tempo da Kunibert Raffer, professore di economia all’università di Vienna. Questo dispositivo permetterebbe ai governi di mantenere i servizi essenziali per le loro popolazioni e al tempo stesso liberarsi dalla parte insostenibile dei loro debiti. Le banche verrebbero senza dubbio colpite da un’iniziativa del genere, ma spetta ai poteri pubblici limitare i danni garantendo i depositi bancari e controllare eventuali istituti in difficoltà in seguito ai piani di ristrutturazione. Del resto non bisogna troppo compatire le banche per i rischi nelle quali incorrono: il loro mestiere consiste nel guadagnare denaro, ma talvolta anche nel perderlo.
Riforme del genere porterebbero l’Europa a un super-stato capace di assumere le sue spese pubbliche a un tasso di interesse accettabile e di tenere testa alle agenzie di rating e ai mercati di Cds – in altre parole a uno stato intenzionato a controllare le sue banche piuttosto che a esserne controllato. La decisione spetta solo agli europei.
Si tratta senza dubbio di un cambiamento radicale. Ma si può ancora sperare in un’evoluzione che non lo sia? C’è ancora qualcuno che dubita che l’architettura neoliberista dell’Europa non sua destinata a crollare? L’alternativa è semplice: intransigenza disastrosa di bilanci di rigore o intransigenza costruttiva di piena occupazione. Intransigenza bancaria o intransigenza sociale.
Da giovane in qualità di assistente della commissione bancaria della Camera dei rappresentanti, partecipai nel 1975 alla creazione di un piano di salvataggio per la città di New York, che all’epoca si trovava in una grave crisi economica e finanziaria. Il nostro programma mirava a preservare le università e i trasporti pubblici; raccomandava inoltre di ristrutturare il debito municipale e di non lamentarsi delle perdite che ne sarebbero derivate per i proprietari di obbligazioni newyorchesi. Un giorno ricevetti una telefonata, era Averell Harriman, ex governatore di New York – ed ex ambasciatore di Roosevelt presso Stalin. Mi chiedeva di fare il punto sulla situazione dei nostri lavori.
L’ottantenne Harriman, appena rimessosi da una frattura al collo del femore, mi ricevette in pigiama su un divano della sua villa di Georgetown. Sul muro di destra uno dei Girasoli di Van Gogh, su un tavolino in vetro alla sua sinistra una ballerina di Degas. Davanti a questo museo privato, cercai di spiegare all’ex governatore perché i membri del comitato preferivano chiedere dei sacrifici ai ricchi piuttosto che ai poveri. Harriman annuì, si chinò in avanti sul suo bastone e disse con voce grave: “Capisco. Il capitale deve pagare, così come il lavoro”. Almeno su questo punto, non è cambiato nulla.

( JAMES K. GALBRAITH -  LE MONDE DIPLOMATIQUE – Il manifesto – GIUGNO 2010)

IN MORTE DEL FRATELLO JOSE’

Qui il mare finisce e la terra comincia. Piove sulla città pallida, le acque del fiume scorrono limacciose di fango, la piena raggiunge gli argini. Una nave risale il flusso tetro, è la Highland Brigade che va ad attraccare al molo di Alcantara. Il vapore è inglese, delle Regie Linee, lo usano per attraversare l’Atlantico, fra Londra e Buenos Aires, come una spola sulle vie del mare, di qua, di là, facendo scalo sempre negli stessi porti, La Plata, Montevideo, Santos, Rio de Janeiro, Pernambuco, Las Palmas, in quest’ordine e nell’inverso, e se non naufragherà nel viaggio, ancora toccherà Vigo e Boulogne-sur-Mer, infine entrerà nel Tamigi come ora sta entrando nel Tago, e non ci si chieda quale dei due fiumi sia il maggiore, quale il villaggio.

Josè Saramago – L’anno della morte di Ricardo Reis

INVITO ALLA LETTURA – LO SPIRITO DEL TOGUNAUTA

Pubblichiamo questo passo tratto dal racconto di John Fante - “1933 Un anno terribile”, per ribadire quello che dovrebbe essere lo spirito della nostra associazione.

Richiamando la Quarta di copertina, il finale del racconto è “un vero inno alla speranza e alla fame di vita dell’adolescenza”. (Per noi anche se non più adolescenti.)

“Sapevo di poter contare su Kenny. Aveva una paghetta settimanale e un conto in banca, inoltre non era come se fossi completamente al verde e dovessi chiedergli di finanziare l’intero viaggio.  Dalla strada vidi la sua finestra illuminata, seppì così che era a casa. La luce brillava anche nella stanza di Dorothy, e quando suonai sperai che sarebbe venuta lei ad aprirmi la porta, non Kenny. Ma non era nemmeno Kenny. Era il signor Parrish. – Voglio parlarti, – disse uscendo in fretta sulla veranda e chiudendo la porta dietro di sé. Era come un pezzo di ghiaccio. Provò a mantenere anche il tono della voce gelido, ma gli tremava dall’emozione. – Voglio che tu giri al largo di mio figlio, – disse. – E anche da questa casa-. Mi piazzò un dito sul petto. – Chiaro? Qui non sei il benvenuto -. Tremava – Ha qualche problema? – dissi. – Ascolta. Kenny non ti segue in questo progetto truffaldino. E’ un ordine. E non deve più mettersi in combutta con te. Hai una pessima influenza su di lui, hai capito? Lascialo stare. Stai lontano da qui, restatene dalla tua parte della città,  altrimenti chiamo la polizia.
Prima che potessi dire qualcosa, anche se in realtà non avevo  proprio niente da dire, rientrò velocemente, mise il catenaccio con un gran fracasso, e spense la luce della veranda. Me ne andai completamente inebetito. Sapevo di non piacere al signor Parrish, ma non che lui mi odiasse. Era perché avevo guidato il suo camioncino? O Ken gli aveva detto della betoniera? Sapeva quello che c’era stato tra Dorothy e me? Non ne avevo  idea. Non capivo più niente, non sapevo più neanche che giorno fosse, non avrei  potuto distinguere la merda dalla cioccolata, chi ero, e perché, e improvvisamente arrancando giù per la collina verso casa non mi importò più di nulla, ero stanco di preoccuparmi, e a modo suo il signor Parrish aveva deciso per me. Il viaggio era annullato. Niente Kenny, niente viaggio. Ero troppo stupido per farlo da solo, avrei potuto sbagliare strada, andare a finire a Torricella Peligna, da dove venivo.  Mio padre aveva ragione. Avrei dovuto aspettare un anno. Diavolo, Roper non era poi così male. Almeno potevo andarci  in giro senza perdermi. Avrei ridato i soldi a mio padre e aspettato un altro anno. Il Braccio cominciò a protestare, ad agitarsi, piangeva come un bambino viziato, mi dava del fifone. Sei una nullità, un rettile, pensi solo a te stesso. Gli diedi una pacca per consolarlo. Ascolta, gli dissi, c’è un sacco di tempo, finiamo gli studi e passiamo una bella estate qui a Roper. Lavoreremo  per il vecchio,  lavoreremo  la domenica, e risparmieremo. Ma Il Braccio non ascoltava quel tipo di discorsi. Divenne moscio e indifferente, e fece finta di essere morto. Mi fece sorridere. Che furbo! Arrivendo sulla nostra strada dopo la stazione di servizio di Art, intravidi nel suo garage qualcosa che mi sembrò di riconoscere, che pareva un cumulo di grasso. Mi avvicinai per guardare più da vicino. Ed eccola lì, la betoniera di mio padre, con il motore smantellato, le sue parti sparse sul pavimento, il carburante immerso in un secchio di benzina.  Sentii un’improvvisa fitta al petto, come se stessi per piangere. Da sopra la spalla vidi Art Belden, il proprietario della stazione, comodamente seduto su una sedia, che ascoltava Bing Crosby cantare Where the Blue of the Night alla radio. Mi avvicinai e aprii la porta, e Art mi disse: – Ciao Dom.
Il cestino del pranzo era aperto sul bancone davanti a lui. Aveva  indosso una tuta bianca con quattro matite che gli uscivano dal taschino, e io lo odiai. Odiavo la perfetta accuratezza di quei panini al burro di noccioline che stava mangiando, la cui crosta era stata tolta con attenzione da sua moglie. Odiavo anche lei. Odiavo la casa grigia e molto ben tenuta in cui vivevano, su Spruce Street. Odiavo il suo collie. Odiavo il suo amabile sorriso, e odiai la sua risposta prima ancora di avergli domandato che cosa ci stesse facendo la betoniera di mio padre nel suo garage. – Era di tuo padre,  – disse -. Gliel’ho comprata questo pomeriggio. Sapevo che era la verità,  però gli risposi: – Non ci credo.
Diede un morso al panino, spense Bing Crosby, e mi fece vedere lo scontrino firmato da mio padre. Per quei venticinque unti dollari unti che avevo in tasca.
- Te la ricompro. – Non è in vendita. – Te ne do trenta.
Scosse la testa e si versò del latte nella tazza del thermos. – Facciamo quaranta. – Stammi a sentire. Non lo voglio vendere.
Tirai fuori il mucchio di banconote e lo gettai sul bancone. – Cinquanta dollari. Venticinque ora e venticinque quest’estate.
Arrivò una macchina e lui uscì per servirla. Presi il rotolo dei soldi e tornai alla betoniera. Era ridotta male e molto rovinata, come le mani di mio padre, era una parte della sua vita, così stranamente antica, come se fosse venuta da un paese lontano, da Torricella Peligna. L’abbracciai e la baciai, e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, non avevo  scelta, dovevo  farcela.

( John Fante – 1933 Un anno terribile – Einaudi (stile libero) 2008)

VERSO LA METROPOLIZZAZIONE DEL MONDO

Si è trattato di un mutamento silenzioso, avvenuto intorno al 2007, un punto nella storia: più della metà della popolazione abita attualmente le città.  Dalle città mesopotamiche del IV millennio prima della nostra era alle megalopoli raggruppanti decine di milioni di abitanti, il processo di urbanizzazione è stato intermittente. Ma sempre connesso alla divisione del lavoro e alla formazione delle classi, con la concentrazione di potere e di saperi. L’attuale civilizzazione urbana nasce con la rivoluzione industriale, ereditandone le dualità.  Nella città, dove la segregazione sociale emargina i poveri, tra le città, poiché allo sviluppo verticale di tecnopoli avveniristiche si accompagna la crescita orizzontale delle bidonvilles. Centri urbani pensati come centri di profitto, le metropoli si affrontano per intercettare i flussi di capitali, di merci e di popolazioni benestanti. Facendo gonfiare bolle immobiliari e collera popolare.

Le capitali del capitale
di Jean-Pierre Garnier*

Da Bombay a Pechino, passando per Londra, New York e Parigi, la ristrutturazione urbana attraverso la “distruzione creatrice” ha assunto una dimensione planetaria. Qartieri popolari ben collocati vengono riassettati e i loro originari residenti spediti nelle periferie, in alloggi di basso livello per fare spazio ad abitanti di lusso, sedi sociali, istallazioni culturali prestigiose capaci di attirare investitori, immobiliaristi, direttori di società, quadri superiori e turisti abbienti.
In breve “la bidonville globale entra in collisione con il cantiere di costruzione globale – afferma il geografo David Harvey – e tale atroce asimmetria va interpretata come una forma evidente di confronto di classe (1)”
Bisogna dedurre quindi che, al di là dell’apparizione di nuovi processi di ristrutturazione urbana e architettonica, la lotta secolare tra dominanti e dominati per la conquista (o la riconquista) dello spazio urbano prosegue secondo una dinamica immutabile?

Affermare ciò significherebbe dimenticare gli effetti ideologici e politici della ricomposizione dei gruppi sociali, in particolare nei paesi in cui l’industrializzazione ha ceduto il passo alla “terziarizzazione”. La crescita delle attività  legate ai servizi che si è accompagnata,  a partire dagli ultimi venticinque  anni del XX secolo, con l’espansione di una nuova classe media, legata alla polarizzazione delle funzioni-chiave finanziarie, giuridiche e culturali in seno alle aree urbane assurte al rango di “metropoli”su scala mondiale o, almeno, nazionale. Vi sono due elementi significativi di questa evoluzione a cui è necessario prestare attenzione: da un alto, la crescita poderosa di questa forza-lavoro intellettuale provvista di un buon capitale scolastico (studi e diplomi di insegnamento superiore) che, desiderosa innanzitutto di farlo fruttare, ha legato le proprie sorti a quelle della borghesia. Dall’altro lato, prima l’indebolimento poi la disgregazione del movimento operaio hanno travolto i progetti di trasformazione radicale della società e gli ideali di emancipazione  collettiva  su cui tale movimento si fondava.
Parlare di “confronto”, per utilizzare la formulazione di Harvey, non implica necessariamente alludere al conflitto. I divari di classe che si manifestano oggi nello spazio urbano assumono piuttosto le forme del separatismo.
Gli scontri frontali tra possidenti e spossessati sono diventati rari. La lotta per l’appropriazione della città non è cessata per mancanza di combattenti , ma perché , di fronte ad una borghesia perennemente all’offensiva, l’altro attore del conflitto non è più in grado di opporsi. La prima “conserva l’insieme degli attributi propri di una classe: comunità di situazione, di destino, sentimento di appartenenza e strategiemultiple di riproduzione, incluse le azioni finalizzate all’indebolimento del mondo del lavoro”(2). Il proletariato industriale, invece, ha perso coscienza della sua esistenza collettiva e del suo “ruolo storico” di soggetto rivoluzionario chiamato a sovvertire l’ordine esistente che gli avevano attribuito i teorici del socialismo.
Non vi è dubbio che le trame delle classi dirigenti per privare gli strati popolari del loro territorio non hanno cessato di suscitare resistenze. Scontri tra la polizia o l’esercito e gli abitanti di capamentos , ciudades cayampas, favelas e altri quartieri formati da alloggi di fortuna, mascherati da episodi di lotta contro la delinquenza o la sovversione in America latina: sgomberi manu militari delle bidonvilles in Maghreb e nell’Africa subsahariana; nella Cina “popolare”, sgomberi “energici” degli abitanti originari e distruzione delle loro case per fare piazza pulita nei terreni destinati ad accogliere le infrastrutture e gli immobili necessari per mettere le grandi città al passo  con la globalizzazione mercantile; incendio metodico delle automobili di grossa cilindrata negli ex-quartieri “alternativi” di Berlino invasi dalla nuova borghesia, dopo la riunificazione…
Si potrebbero inoltre menzionare le rivolte della popolazione afroamericana dei ghetti statunitensi nel corso degli anni ’60 o quelle dei giovani immigrati afrocaraibici delle zone diseredate delle periferie inglesi destinate, all’inizio degli anni ’80, a un processo di “rinnovamento” dal governo di Margaret Thatcher. In Francia, in Italia e in Spagna, manifestazioni, occupazioni, proliferazione di case occupate, autoriduzione degli affitti, fioritura di associazioni di residenti e di comitati di quartiere fecero credere, negli anni ’70, all’apparizione di un nuovo tipo di movimento sociale. Esso, definito da un sociologo critico con l’espressione di “lotte urbane”, era più o meno esplicitamente caratterizzato dalla rivendicazione del “diritto alla città” per tutti. I teorici e i militanti di estrema sinistra che avevano creduto di scorgere in questo fenomeno l’apertura di un nuovo fronte di lotta contro il capitalismo, rimasero molto presto delusi.
Tranne alcune eccezioni, la saldatura tra lavoratori e cittadini (determinata dall’estensione della lotta di classe ai luoghi di residenza) non si è verificata. Quando si è concretizzata, come in Cile, in Argentina e in alcune città italiane e spagnole (Torino, Bologna, Barcellona), dove i lavoratori erano riusciti a coniugare la lotta contro lo sfruttamento nelle fabbriche a quella contro gli immobiliaristi, i proprietari e i loro sostegni politici, la residenza assunse forme effimere, spesso soffocate dalla repressione. Altrove, essa fu neutralizzata attraverso il recupero: i negoziati con i poteri in gioco, infatti, hanno spesso avuto come effetto (se non come obiettivo) lo smussamento della combattività e della radicalità degli abitanti in lotta. Ciò si ottiene anche mediante la notabilizzazione dei dirigenti delle lotte, come mostrò in maniera emblematica la promozione, nel 1989, di Daniel Cohn-Bendit alla carica di assessore per le questioni multiculturali del sindaco socialdemocratico (SPD) di Francoforte sul Meno.
Le “lotte urbane”, la cui deflagrazione era ritenuta in grado di garantire al proletariato il supporto di altre categorie sociali nella battaglia contro il capitale, sono state innanzitutto condotte (e ancora di più teorizzate) da militanti “contestatari” provenienti dall’università (insegnanti, ricercatori, architetti, lavoratori sociali…). L’importanza che essi attribuivano al “contesto di vita” si accompagnava ad una certa indifferenza (se non una pura e semplice ignoranza) rispetto a ciò che avveniva nel “mondo del lavoro”. In Francia, sotto la guida dei baroni universitari della “seconda sinistra” (Francois Dubet, Didier Lapeyronnie…) – precursori, nei fatti, del social-liberismo -, le lotte urbane furono registrate tra i “nuovi movimenti sociali” chiamati a prendere il posto di un movimento operaio esaurito. Si supponeva che tali movimenti fossero finalizzati a “cambiare la vita”, senza avvertire il bisogno di farla finita con il capitalismo, ormai considerato insuperabile.  “Cambiare vita” non implicava più la trasformazione della società: era sufficiente aiutare quest’ultima a evolversi, dandogli semplicemente un volto più “urbano”.
E’ esattamente in questo compito che si sono cimentati numerosi ex-detrattori dell’urbanizzazione capitalista. Sociologi e geografi , architetti e urbanisti, esperti di costruzioni ed eletti locali uniscono ora i loro sforzi per adattare lo spazio alle esigenze del capitalismo “postmoderno”. Dopo averle svuotate di tutte le loro connotazioni rivoluzionarie, essi non hanno esitato a riprendere alcune tematiche del “diritto alla città” teorizzato dal sociologo marxista Henry Lefebvre (3): priorità degli aspetti qualitativi su quelli quantitativi, rifiuto della standardizzazione dell’edilizia per la preservazione o il ripristino della storicità, dell’autenticità e della personalità di un quartiere, attribuzione di importanza agli spazi pubblici – luoghi per eccellenza della socialità spontanea.
Non si tratta di fare tabula rasa del passato urbano di una città come all’epoca del “rinnovamento dei bulldozer”, quando i quartieri giudicati insalubri, ovvero per lungo tempo abbandonati al declino, venivano rasi al suolo (per “liberare terreni” adatti alla fioritura di immobili di lusso, abitazioni e uffici) e le loro vie tortuose e ingombre, ereditate dai secoli precedenti, dovevano cedere il posto alle strade tangenziali e radiali, al fini di “adattare la città all’automobile”. Non è più il momento della distruzione (a meno che l’edificio esistente non sia irrecuperabile), ma piuttosto quello della “riabilitazione”, della “rigenerazione” e della “rivitalizzazione” e della “rinascita”. Questa terminologia, in voga tra i diversi attori preposti alla ristrutturazione della città, mira innanzitutto a dissimulare una logica di classe: riservare gli spazi “riqualificati” a persone di qualità. “tutte queste parole che cominciano per ri- sono a priori posititive per la città, ma cancellano completamente la questione sociale – nota una geografo belga. Quando un quartiere divente alla modae di tendenza, ciò implica che una serie di abitanti ne vengano cacciati. Il quartiere è dunque “migliorato”, ma non per le stesse persone (4).” In altre parole, se vi è “rinnovamento urbano – altro pseudo-concetto, lanciato in Francia durante il governo della “sinistra plurale” nel quadro della “politica della città” -, esso mira innanzitutto a rinnovare la popolazione affinchè gli abitanti delle zone centrali dei grandi agglimerati siano in sintonia con la loro nuova vocazione: imporsi come “metropoli” dinamiche ed attrattive.
Anche quando viene effettuato progressivamente, l’arrivo nei vecchi quartieri operai di gruppi sociali appartenenti ai settori medi e superiori del lavoro salariato ed alle libere professioni prodotte dallo sviluppo della “società dell’informazione” è spesso stato avvertito dagli abitanti originari come un’invasione. Per la maggior parte di loro, essa ha significato il trasferimento (grazie alla speculazione fondiaria e immobiliare) e la sostituzione con cittadini agiati e istruiti, preoccupati di costruire un’identità residenziale coerente rispetto a quella sociale. La gentrificazione non investe soltanto lo spazio fisico: essa investe anche quello politico e, in particolare, la natura dei partiti della sinistra ufficiale la cui base popolare ha continuato a ridursi.
“Si tratta di un fenomento europeo – afferma il geografo Christophe Guilluy: praticamente ovunque si assiste a una “gentrificazione” della socialdemocrazia (5). Non ci si stupirà quindi del fatto che le amministrazioni di sinistra tendano per la maggior parte del tempo ad andare incontro ai desideri e alle aspirazioni della loro nuova base sociale, soprattutto in materia di urbanistica, alloggi e consumi culturali.
In un lussuoso opuscolo che illustra l’auspicabile futuro di Parigi nel XXI secolo e le ristrutturazioni programmate per fare sì che esso si realizzi, la vicesindaco socialista, incaricata dell’urbanistica e dell’architettura, Anne Hidalgo, riassumeva così la problematica che si impone ormai agli eletti locali delle grandi città: consolidare la loro posizione e la loro identità di “città globali”, “uno statuto che la capitale francese contende a numerose metropoli del pianeta (6)”.
I discorsi lirici e consensuali sulla necessità di “rompere l’isolamento del centro dell’agglomerato” in relazione alla periferia, e di gettare “un nuovo sguardo sul suo ruolo all’interno della regione urbana” non devono creare illusioni. Come la super Rer (Rete espressa regionale di Parigi, ndt) circolare e automatizzata prevista per l’ipotetica “grande Parigi”, così anche il progetto di collegamento del Ring intorno ai quartieri tradizionali di Anversa non ambisce a rispondere ai bisogni più urgenti degli abitanti in materia di spostamento, ma a mettere in relazione diretta i poli economici, i nodi autostadali, gli aeroporti e le stazioni ferroviarie. In altri termini, i punti giudicati vitali per la circolazione del capitale, e che, articolandosi tra loro, permetterebbero alla metropoli di non lasciarsi distanziare dalle sue rivali europee. Ugualmente, gli esorbitanti piani urbanistici ritenuti capaci di accrescere la “attrattività” della “grande Hanoi” non devono aiutare l’ex capitale della resistenza antimperialista (e oggi nuovo eldorado per gli immobiliaristi e “capitale dello shopping” molto apprezzata dai turisti occidentali) a difendere le sue posizioni di fronte a Singapore, Hongkong e anche Shanghai? E cosa dire della costruzione programmata a San Francisco di un prestigioso “centro di transito” dove si interconnetteranno i differenti tipi di trasporto pubblico per fluidificare il traffico intorno alla baia? Questa operazione di “rinnovamento urbano” che integra i grattacieli e le strutture ricreative dovrebbe “cambiare il profilo della città”. E anche il suo profilo sociale: una parte della vecchia downtown, che include numerosi edifici occupati, sarà puramente e semplicemente cancellata dalla mappa (7).
Il “progetto condiviso” destinato a unire il centro e la periferia delle regioni urbane in un “destino comune” non è che l’applicazione in rapporto allo spazio del principio fondamentale che deve reggere la vita sociale sull’intero pianeta: “la concorrenza libera e non falsata”.

(1) David Harcey, “The right to the city”, New left Review, n. 53, Londra, settembre/ottobre 2008.
(2) Paul Bouffartigue (a cura di), Le Retour des classes sociales, Inégalités, dominations, conflits, La Diaspute, Parigi, 2004.
(3) Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Marsilio editore, Padova, 1970.
(4) Mathieu Van Criekingen, La Tribune de Bruxelles, 6 dicembre 2007.
(5) Christophe Guilluy, “La nouvelle géographie sociale à l’assaut de la carte électorale”, Cevipof, Parigi, 2002.
(6) Anne Hidalgo, “Paris doit faire face à une évolution profonde du monde”, Paris 21 siècle, Atelier parisien d’urbanisme – La Passage, Parigi, 2008.
(7) Brad Ston, “Ambitious downtown transit project is at hand” The New York Times, 3 gennaio 2010.

*Sociologo, autore di Une violence éminemmentcontemporaine. Essais sur la ville, la petite bourgeoisie intellectuelle et l’effacement des classes populaires, Agone, Marsiglia, 2010. L’articolo riprende alcune parti del capitolo introduttivo.

Questo articolo è stato pubblicato su “Le Monde Diplomatique – il Manifesto – aprile 2010”

NON INNALZARSI AL DI SOPRA DEGLI ALTRI

“La loro ecologia e la nostra”

Di Andrè Gorz

Il filosofo Andrè Gorz, capace di guardare il nel futuro, aveva previsto, in questo testo apparso nel 1974, il recupero dell’ecologia da parte dell’industria, dei gruppi finanziari – in una parola da parte del capitalismo

Evocare l’ecologia è come parlare del suffragio universale e del riposo domenicale: in un primo tempo, tutti i borghesi e tutti i partigiani dell’ordine costituito vi dicono che volete la loro rovina , il trionfo dell’anarchia e dell’oscurantismo. Poi, in un secondo tempo, quando la forza delle cose e la pressione popolare diventano insostenibili, vi si accorda quel che si respingeva il giorno precedente e, fondamentalmente, non cambia nulla.

Sono numerosi coloro che, fra gli industriali, si rifiutano di tener conto delle esigenze ecologiche. Ma queste hanno già così tanti sostenitori capitalisti che la loro accettazione da parte delle potenze economiche sta diventando una possibilità concreta. Allora tanto vale, sin da ora, non giocare a nascondino: la battaglia ecologista non è un fine in sé, ma una tappa. Essa può creare delle difficoltà al capitalismo e obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver a lungo resistito con la forza e l’inganno, alla fine esso cederà poiché l’impasse ecologica sarà diventata ineluttabile, integrerà questa costrizione come ha integrato tutte le altre.

Perciò bisogna subito porre la questione apertamente: che cosa vogliamo noi? Un capitalismo che si adatti alle costrizioni ecologiche o una rivoluzione economica, sociale e culturale che abolisca le costrizioni del capitalismo e, di conseguenza, instauri un nuovo rapporto degli uomini con la collettività, il proprio ambiente e la natura? Riforma o rivoluzione?

Non dite assolutamente che questo problema è secondario e che l’importante è non insozzare il pianeta al punto di renderlo inabitabile. Perché neanche la sopravvivenza è un fine in sé: vale la pena sopravvivere, come si domanda Ivan Illich, in “un mondo trasformato in un ospedale globale, in una scuola globale, in una prigione globale e dove il compito principale degli ingegneri dell’anima sarà fabbricare uomini adatti a questa condizione?” […]

E’ meglio tentare di definire, sin dall’inizio, per cosa si lotta e non solamente contro cosa. Ed è meglio tentare di provvedere come il capitalismo sarà colpito e trasformato dalle costrizioni ecologiche, piuttosto che ritenere che esse provocheranno la sua scomparsa e nient’altro.

Ma, innanzitutto, che cos’è, in termini economici, una costrizione ecologica? Prendete, per esempio, i giganteschi complessi chimici della valle del Reno a Ludwigshafen (Basf) a Leverkusen (Bayer) o Rotterdam (Akzo) Ogni complesso combina i seguenti fattori:

°risorse naturali (aria, acqua, minerali) che erano finora ritenute gratuite perché esse non potevano essere riprodotte (rimpiazzate);

*mezzi di produzione (macchine, edifici), che costituiscono capitale immobile, che deperiscono e che bisogna dunque rimpiazzare (la riproduzione), preferibilmente con mezzi più potenti e più efficaci, in grado di fornire all’impresa un vantaggio sui propri concorrenti;

*forza lavoro umana che richiede anch’essa di essere riprodotta (è necessario nutrire, curare, alloggiare, educare i lavoratori).

Nell’economia capitalista, la combinazione di questi fattori, in seno al processo produttivo, ha come obiettivo prevalente il massimo del profitto possibile (il che, per un’impresa preoccupata del proprio avvenire, significa anche il massimo della potenza, quindi di investimenti, di presenza sul mercato mondiale). La ricerca di questo risultato si ripercuote profondamente sul modo in cui i differenti fattori sono combinati e sull’importanza relativa che è assegnata a ciascuno di loro.

L’impresa, per esempio, non si chiede mai come fare perché il lavoro sia più piacevole, la fabbrica tuteli al meglio gli equilibri naturali e lo spazio di vita delle persone, i propri prodotti rispettino gli obiettivi che si danno le comunità umane. […]

Ma ecco che, soprattutto nella valle del Reno, l’affollamento umano, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua hanno raggiunto un grado tale che l’industria chimica, per continuare a crescere o anche soltanto a funzionare, si vede costretta a filtrare i propri fiumi e scarichi, ovvero a riprodurre delle condizioni e delle risorse che, finora, erano considerate “naturali” e gratuite. Questa necessità di riprodurre l’ambiente inciderà in maniera evidente: bisogna investire sull’inquinamento, quindi accrescere la massa di capitali immobili; è necessario, poi, assicurare l’ammortamento (la riproduzione) degli impianti di depurazione; e il prodotto di questi ultimi (la proprietà relativa dell’aria e dell’acqua) non può essere venduto con profitto.

C’è, insomma, un aumento simultaneo del peso del capitale investito (della “composizione organica”), del costo di riproduzione di quest’ultimo e dei costi di produzione, senza un corrispondente aumento delle vendite. Di conseguenza, delle due l’una: o il margine di profitto si abbassa, oppure il prezzo dei prodotti aumenta. L’impresa cercherà evidentemente di alzare i suoi prezzi di vendita. Ma non se ne uscirà fuori così facilmente: tutte le altre ditte inquinanti (cementifici, metallurgia, siderurgia, ecc.) cercheranno, anch’esse, di far pagare i propri prodotti più cari per il consumatore finale. Prendere in conto le esigenze ecologiche avrà infine questa conseguenza: i prezzi tenderanno ad aumentare più velocemente dei salari reali, dunque il potere d’acquisto del popolo sarà compromesso e tutto avverrà come se il costo dell’inquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispongono le persone per comprare le merci.

La produzione di queste ultime tenderà quindi a stagnare o ad abbassarsi; ciò aggraverà la predisposizione alla recessione o alla crisi. E tale arretramento della crescita e della produzione che, in un altro sistema, sarebbe potuto essere un bene (meno automobili, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più corte, ecc.) avrà degli effetti completamente negativi; le produzioni inquinanti diventeranno dei beni di lusso inaccessibili alla massa, senza smettere di essere alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze si approfondiranno; i poveri diventeranno relativamente più poveri e i ricchi più ricchi.

L’assunzione dei costi ecologici avrà, insomma, gli stessi effetti sociali ed economici della crisi petrolifera. E il capitalismo, lungi dal cedere alla crisi, la guiderà come ha sempre fatto: dei gruppi finanziari ben piazzati approfitteranno delle difficoltà dei gruppi rivali per assorbirli a basso costo ed estendere il proprio dominio sull’economia. Il potere centrale rafforzerà il suo controllo sulla società: tecnocrati calcoleranno livelli “ottimali” di inquinamento e produzione, promulgheranno regolamenti, estenderanno i domini della “vita programmata” e il campo di attività dei dispositivi di repressione. […]

Dite che nulla di tutto ciò è inevitabile? Certo. Ma è proprio ciò che rischia di accadere se il capitalismo è costretto ad assumersi i costi ecologici senza che un attacco politico, lanciato a tutti i livelli, gli strappi il controllo delle operazioni e gli opponga tutto un altro progetto di società e di civiltà.

Perché i partigiani della crescita hanno ragione almeno su un punto: nel quadro dell’attuale società e dell’attuale modello di consumo fondati sulla diseguaglianza, il privilegio e la ricerca del profitto, la non-crescita o la crescita negativa possono soltanto significare stagnazione, disoccupazione, crescita dello scarto che separa ricchi e poveri. Nel quadro dell’attuale modello di produzione, non è possibile limitare o bloccare la crescita ripartendo al contempo più equamente i beni disponibili.

Finchè si ragionerà all’interno di questa civiltà non egualitaria, la crescita apparirà alla massa delle persone come la promessa – per quanto completamento illusoria – che un giorno esse smetteranno di essere “sotto-privilegiate”, e la non-crescita apparirà come la loro condanna alla mediocrità senza speranza. Perciò non è tanto la crescita che bisogna combattere quanto la mistificazione che essa comporta, la dinamica dei bisogni crescenti e continuamente frustrati sulla quale essa risposa, la competizione a cui essa predispone incitando gli individui a voler innalzarsi, ciascuno, “al di sopra” degli altri. Il motto di questa società potrebbe essere:

Ciò che è bene per tutti non vale niente. Tu sarai rispettabile solo se hai “meglio” degli altri.

Ora è l’inverso che bisogna affermare per rompere con l’ideologia della crescita: E’ degno di te solo ciò che è bene per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né umilia alcuno. Possiamo essere più felici con meno opulenza, perché in una società senza privilegi, non ci sono poveri.

*Andrè Gorz è morto nel settembre 2007. Questo testo, apparso nell’aprile del 1974 nel mensile ecologista Le Sauvage, è stato pubblicato nel 1975 dalle edizioni Galilée, con la firma di Michel Bosquet, pseudonimo di Gorz, come introduzione alla raccolta Ecologie et politique; trad. it. Ecologia e Politica, Cappelli, 1978.

Questo bellissimo articolo è stato pubblicato su “Le Monde Diplomatique – il Manifesto – aprile 2010”

INVITO ALLA LETTURA DANIEL ZIMMERMAN

La stanza è completamente spoglia, fatta eccezione per una fila di pagliericci stesi direttamente sul pavimento e di una sporcizia disgustosa, inzuppati di urina, macchiati di escrementi semisolidi o di deiezioni liquide. In mezzo a questo scompiglio, tra un cumulo di bagagli, marciscono un centinaio di bambini dai due ai dodici anni. Sparpagliati qua e là, qualche bambola e orsetto di peluche. nessuno sta giocando, rare le lacrime, inesistenti i sorrisi. I ragazzi più grandicelli, con l’espressione grave delle persone anziane, accompagnano i piccini ai secchi che si trovano all’ingresso. Lunghe sedute, le pance dilatate dei bimbi si svuotano a violente raffiche, asciugamani e strofinacci ancora sudici per pulire i diarroici. Sono le conseguenze della dieta a base di sola zuppa di cavoli, commenta laconica Myriam, non le è riuscito di ottenere nè latte nè brodo di legumi nè farmaci. Francois suggerisce il carbone di legna, con lui ha funzionato. La ragazza scuote la testa, impossibile farglielo prendere, troppo cattivo anche diluito in acqua . Francois è soprattutto sconvolto dall’aria rassegnata dei bambini, dai loro lineamenti immobili, dai loro sguardi vitrei. Che ci fanno qui? Non sono mai stati lussiriosi, avari, barattieri, eretici, ruffiani, simoniaci, falsari, traditori della patria o adulatori per meritare di starsene sprofondati così nel fiume di merda della decima bolgia dell’ottavo cerchio. E quel che più conta, Dante non ha mai incontrato un solo bambino nell’Inferno.

D. Zimmerman, “La città dolente“, p. 76

CARCERE E INDULTO DI ADRIANO SOFRI

CARCERI
QUANDO LA PUNIZIONE DIVENTA INFERNO
Adriano Sofri
Per conoscere un paese, vai a guardare le  sue galere. Bella frase, eh? Lo ripetono in tanti, non ci crede quasi nessuno. Le galere sono inguardabili, per definizione. Vi si compiono pratiche di cui non vogliamo sapere niente, nella realtà: nei film invece ci piace moltissimo. I film sono fatti apposta per accontentare la nostra voglia di guardare cose inguardabili: tanto è un film, non ci impegna, finisce e andiamo a dormire contenti. Ora si è capito che la politica è questione di corpi. Aggiustiamo la frase: se volete conoscere la politica dei corpi, andate a guardare le galere. Prima ancora che gli ospedali, perché le galere sono anche ipeggiori degli ospedali.
La giustizia – non dico la bella aspirazione a qualcosa che non esiste, ma la sua professione: tribunali, giudici, processi – si ferma alle soglie del carcere, quando gli accusati o i condannati vengono passati ai birri. Là cessano di essere persone, e perfino di essere diversi fra loro. Non importa che siano innocenti incarcerati in attesa di un giudizio che li scagionerà, assassini di donne, o stranieri non in regola e basta. Sono corpi consegnati come si consegna un umiliato animale alle gabbie di uno zoo. Così si entra, e si lasciano alla matricola i propri effetti personali, un anello, la cintura e i lacci, la fotografia di fronte e di profilo, le impronte dei polpastrelli, e l’anima. I corpi devono essere denudati, perché sia piena la loro spoliazione. Nudi, una flessione, o più, una perquisizione anale, la consegna dei lenzuoli, se non sono finiti, e l’inoltro alla gabbia. L’ho pensato tante volte, e lo pensano tutti gli avventori di quel pozzo, agenti penitenziari ed educatrici, medici e suore, direttori e infermieri: come mai sono così pochi a suicidarsi in galera? Solo 61 in dieci mesi, per esempio, quest’anno. Come mai così pochi si feriscono, si tagliano, si mutilano? Solo alcune migliaia all’anno. Si prova una gran pena per i suicidati e gli ammazzati. Ma un vero sgomento per gli altri. Come hanno fatto a passare l’estate? Ve li ricordate, i giorni torridi dell’estate appena trascorsa? Era dura restare in spiaggia nelle ore meridiane, eh? In una qualunque delle galere si stava chiusi 20 o 22 ore al giorno dentro celle dalle sbarre arroventate e porte blindate in uno spazio inferiore a quello che le leggi assicurano ai pollai.
Quasi 30 mila persone all’anno entrano in galera per uscirne nel giro di tre giorni. Sensazionale, no? E per ognuno tutta la liturgia: lasciare l’anello e la cintura e l’anima, e le flessioni… Pazzia, naturalmente. Ma le pazzie sono difficili da affrontare, quando sono abituali, e basta voltare la testa dall’altra parte. In questi giorni una catena di episodi normalmente infami, ma imprevedibilmente documentati, inducono a non voltare la testa. Passerà presto. Si dimenticheranno le frasi meravigliose: Cucchi caduto dalle scale, il colonnello che avverte che una camera di sicurezza non è un albergo a cinque stelle, l’ufficiale che spiega che il massacro va eseguito al piano di sotto se no il negro lo vede, il sindacalista che spiega che tecnicamente massacro vuol dire richiamo verbale. Ci sono quasi 66 mila detenuti per una capienza di 41 mila. Se non ci fosse stato l’indulto, sarebbero più o meno 90 mila per una capienza di 41 mila. Un esperimento di fisica solida memorabile. E dell’indulto, avete ancora così orrore? Tanto allarme sul favore scandaloso fatto a Previti: avete più sentito nominare Previti? Però vi siete sentiti dire che l’indulto – votato a grandissima maggioranza dai due schieramenti, e ripudiato un minuto dopo da ambedue, per viltà – ha fatto impennare la criminalità e la recidiva. Non era vero. Vi hanno detto che non era vero? Macché: vi hanno detto che le carceri si erano riempite di nuovo, che i disgraziati usciti si erano sbrigati a rientrarci. Ci hanno anche scherzato su, come si scherza sulle scenette ridicole. Alla sufficiente distanza di tre anni le cose stanno così: che fra chi sconti l’intera pena in carcere il tasso ordinario di reciidiva supera il 68 per cento, e invece fra chi ha beneficiato dell’indulto la recidiva è stata del 27 per cento. Dunque ben più che dimezzata. Col dettaglio quasi comico, rispetto agli anatemi che corrono, che fra gli stranieri la recidiva è ancora più bassa. E vi hanno detto che, con l’eccezione del Napoletano, le cifre complessive sulla criminalità sono in forte diminuzione nel periodo 1992-2009, a cominciare dagli omicidi volontari, ridotti a un terzo? Si è tanto gridato contro la vergogna dell’indulto (povero Papa!) da impedire che fosse seguito dal suo complemento indispensabile, e riconosciuto indispensabile da tutti gli addetti, a cominciare dai magistrati: l’amnistia, che non avrebbe messo fuori nessun altro, ma avrebbe estinto una mole ormai superflua, dunque disastrosa, di procedimenti. E si è sabotato il lungo lavoro di un’ennesima commissione incaricata di riformare il codice penale. Ipocrisia di centrodestra e demagogia di giustizieri hanno fatto sì che l’indulto sia apparso come opera esclusiva del governo Prodi, e ne abbia segnato il discredito: un caso di omicidio suicidio politico. E un esempio del modo in cui il pregiudizio innamorato della galera (altrui) massacri i malcapitati che ci finiscono dentro, ma giochi anche l’intera partita del governo di un paese. E non è singolare che un capo di governo di centrodestra insidiato per anni dall’ombra della galera la sventi di volta in volta con le leggi e gli espedienti per sé, e non sia tentato per un momento di dare un’occhiata a come ci stanno, in galera, quegli altri 65 mila? Ci stanno bene, l’estate è passata. Fra poco farà un freddo meraviglioso.
ADRIANO SOFRI Diario di Repubblica del 5 novembre 2009

INVITO ALLA LETTURA – MARCEL PROUST

Temendo che il piacere tratto da quella passeggiata solitaria potesse affievolire in me il ricordo della nonna, cercavo di ravvivarlo pensando a qualche grave sofferenza morale che l’aveva afflitta: sofferenza che, al mio richiamo, tentava di costruirsi nel mio cuore, slanciandovi i suoi immensi pilastri; ma il mio cuore, certo, era troppo piccolo per contenerla, non avevo la forza di reggere un dolore così grande, la mia attenzione veniva meno nel momento in cui esso si riformava intero, e le sue arcate precipitavano prima di essersi ricongiunte, così come crollano le onde prima d’aver compiuto la prima volta. Ma sarebbero bastati i miei sogni, quando dormivo, a farmi capire che il mio dispiacere per la morte della nonna s’attenuava, giacchè lei vi appariva meno oppressa dall’idea ch’io mi facevo del suo nulla. La vedevo sempre malata, ma in via di ristabilirsi; la trovavo meglio. E se alludeva a ciò che aveva sofferto, io le chiudevo la bocca con i miei baci, assicurandole che, adesso, era guarita per sempre. Avrei voluto far constatare agli scettici che la morte è davvero una malattia da cui ci si salva. Solo, non trovavo più nella nonna la ricca spontaneità d’una volta. Le sue parole non erano che una replica indebolita, docile, quasi una semplice eco delle mie: lei non era più che il riflesso del mio pensiero.

(MARCEL PROUST – ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO – SODOMA E GOMORRA II)

INVITO ALLA LETTURA – GESUALDO BUFALINO

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo, poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).
Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi così del repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Caduto il vento, la cui mano m’aveva a più riprese, come la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno, i miei passi, quelli di un’ombra. Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accennavano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, a qualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il più smunto, il più vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini, o come diavolo si chiama.
“Fermati”, gridavo “madre mia, ragazza, colomba”, mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.
(Gesualdo Bufalino – Dicerie dell’untore)

VICINI A QUEL BARCONE

Vicini a quel barcone

Mi venivano i brividi, e, subito dopo, attacchi di rabbia, quando mio padre iniziava la sua cavatina cinica: “L’uomo è bestia, egoista e capace di amare solo se stesso e la sua progenie”. La chiosa, lo sapevo, sarebbe stata, invariabilmente: “Siete dei poveri illusi voi, che volete la giustizia e l’eguaglianza”. Pensavo che era un vecchio scemo, chiuso, gretto. Un piccolo borghese senza sogni e senza progetti grandiosi. Leggendo di quel 71 % degli italiani che si sarebbe detto (il condizionale è diretta emanazione della mia incredulità di fronte ai sondaggi) favorevole ad incriminare per immigrazione clandestina i 5 superstiti di un gommone carico di morti di sete, ho pensato forse aveva ragione mio padre. L’empatia, questo stato d’animo faticoso e sublime, non è, evidentemente, alla portata di tutti. Ci si mette nei panni dei propri figli, poi dei propri amici, quindi dei simili intesi come affini, perché la fantasia è poca (nella media) e non riesce a coprire la distanza culturale fra una ventisettenne eritrea e la vicina di casa, anche lei di Brescia o Verona, che legge da sempre lo stesso giornale ed espone, negli incontri di pianerottolo, opinioni omogenee alla sottocultura di caseggiato. Pare difficile, invece, sentirsi, anche solo per un attimo, la pelle nera, la miseria come prospettiva, la guerra in casa, la carestia, l’ignoranza addosso, la denutrizione, la paura. Ci si riuscisse, magari facendo, come in certe scuole di recitazione,  esercizi di penetrazione nella psicologia del personaggio, non si potrebbe restare indifferenti a quell’oscillare patetico di speranza e disperazione, non si saprebbe condannare a restar fuori chi ha bisogno di essere accolto. L’empatia è la religione dei laici, si soffre come all’inferno,  ma non ci si può rinunciare. Pena la perdita dell’unico Dio concreto, praticabile: l’altro, la persona.

Questo articolo è stato scritto da Lidia Ravera (scrittrice) e pubblicato su “L’Unità” del 27 agosto 2009,  nella rubrica Voci d’Autore.

BUONA RICERCA

MEGLIO QUI CHE ALTROVE

Forse la felicità, come la pace o la passione, arriva soprattutto quando non la cerchi.

Il poeta e filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson verso la fine della sua vita scrisse: “Tutto ciò che ho visto mi insegna a confidare nel creatore per tutto ciò che non ho visto”. Eppure Emerson aveva perso il padre all’età di 7 anni, poi la prima moglie, che ne aveva venti, e un figlio di cinque. In Giappone il poeta Issa, vissuto alla fine del settecento, è amatissimo per i versi in cui celebra incantato il mondo della natura. Eppure perse quattro dei suoi figli, vide la moglie morire di parto e lui stesso rimase paralizzato.

A 29 anni forse non conoscevo nei dettagli le vite di queste persone. Ma cominciavo a sospettare che la felicità non dipendesse tanto dalla nostra condizione quanto da ciò che ne facciamo, in ogni senso. “Nulla è buono o cattivo”, dice Amleto. “Ma è il pensiero che lo rende tale”. A quel tempo avevo già la fortuna di fare la vita che sognavo da ragazzo: un lavoro fantastico (scrivere di politica internazionale per la rivista Time), un appartamento a Park avenue,  tempo e denaro a sufficienza per andare in vacanza in Birmania, Marocco o El Salvador. Ma ogni volta che viaggiavo incontravo persone che, pur essendo intrappolate in mille difficoltà, sembravano avere più energie e più ottimismo dei miei amici. Nella privilegiata città californiana di Santa Barbara, dove ero cresciuto, conoscevo gente che magari era al quarto matrimonio e andava tutti i giorni dall’analista. E così, seguendo uno stereotipo sessantottino, ho lasciato la mia vita comoda per andare a vivere un anno in un tempio dei quartieri poveri di Kyoto. Quel mio anno è durato solo una settimana, il tempo che mi ci è voluto per accorgermi che non si trattava tanto di contemplare la luna e comporre Haiku, come avevo pensato, ma di pulire per terra senza sosta. Sono passati più di venta’anni, e oggi vivo ancora vicino a Kyoto in un appartamento di due stanze. Non ho la bici né la macchina, la tv non la capisco e non ho altri mezzi di comunicazione. Le mie giornate sembrano durare un’eternità, eppure non mi viene in mente neanche una cosa che mi manchi. Non sono un monaco buddistae non posso dire di amare le privazioni o l’idea di dover fare un’ora di strada per stampare l’articolo che ho scritto. Ma a un certo punto ho deciso che, almeno per me, la felicità non stava in tutto ciò che volevo o di cui avevo bisogno, ma in tutto ciò che non volevo. Così ho cercato di capire cos’è che davvero conduce alla pace interiore o alla concentrazione, che è il punto più vicino alla comprensione della felicità a cui sia mai arrivato. Non avere un’auto mi evita di pensare a un’enorme quantità di cose, e fa delle mie passeggiate nel quartiere un’avventura quotidiana. Dato che non ho un cellulare né una connessione internet veloce, ho il tempo di giocare ogni sera a ping pong, scrivere lunghe lettere a vecchi amici e andare a fare la spesa.

Forse la felicità, come la pace e la passione, arriva soprattutto quando non la cerchi. Di sicuro non consiglierei quasi a nessuno la mia vita, e mi dispiace molto per tutti quelli che negli ultimi tempi sono stati costretti di colpo a una semplicità cho non avevano desiderato. Ma non so quanto i dettagli o le conquiste esteriori possano davvero renderci felici. I miliardari che conosco pensano solo a diventare multimiliardari e passano più tempo in compagnia dei loro avvocati che dei loro amici

Desideri e necessità

Chi lavora in proprio fa sempre una vita precaria. Di questi tempi, poi, le incertezze sono più grandi che mai, soprattutto da quando gli attrezzi che mi sono scelto – le parole scritte – sembrano ridotti a semplici accessori per le immagini. Come quasi tutte le persone che conosco, anch’io negli ultimi mesi ho perso gran parte dei miei risparmi. Ho tempo però per leggere l’ultimo Carrè piluccando mandarini dolci al sole. E quando esce un album dei Sigur Ros, mi riempie giornate e notti intere. In quel momento mi sembra davvero che la felicità, come la pace o la passione, arrivi soprattutto quando non la cerchi. Se preferite la libertà alla sicurezza, se state più comodi in una stanza piccola che in una grande e trovate che la felicità consista nel far corrispondere i desideri alle necessità, allora non è correndo come pazzi che troverete la gioia. A New York una parte di me era sempre altrove, a pensare come sarebbe stata una vita semplice in Giappone. Ora che sono qui, mi accorgo che non penso quasi mai al Rockefeller Center né a Park aveneu.

Questo articolo è stato scritto da PICO IYER – giornalista e scrittore di viaggi per il New York Times -  ed è stato ripreso e pubblicato da INTERNAZIONALE 21/7/2009 – 20/08/2009

ETICA E PROGRESSO – EMANUELE SEVERINO

L’Occidente è dominato da una concezione progressiva del sapere. La scienza è l’esempio più formidabile di questa immagine della conoscenza concepita come la conquista di traguardi sempre nuovi e la dissoluzione di quelli precedenti. Ciò che caratterizza questa concezione del sapere non è il fatto di avere certe credenze sul mondo, ma la possibilità di correggerle in modo non arbitrario. Così è stato, ad esempio, quando la Teoria della Relatività di Einstein ha soppiantato la Teoria di Newton. Ma questa idea di progresso pone una sfida fondamentale all’etica. Le nostre credenze morali infatti difficilmente riescono a resistere al punto di vista scientifico. Nella prospettiva del progresso della scienza e della tecnica i valori e gli impegni morali rappresentano legami spesso irrazionali. L’etica si misura nella lealtà verso un insegnamento o verso un principio, legami di fiducia e di coerenza che possono non trovare giustificazione agli occhi di un estraneo, ma che costituiscono l’identità di una persona. Possiamo tenere saldo il valore di questa identità senza rinunciare all’idea del progresso? Scienza e tecnica hanno un posto centrale nelle nostre vite. Ma l’immagine di un mondo svuotato di valori è ancora troppo temibile per rappresentare una soluzione attraente del conflitto.

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=554

VOTO – ETICA E POLITICA NEL XXI SECOLO – J. LE GOFF

Professor Le Goff, in questa conversazione vorremmo parlare del XXI secolo, ossia di una storia non solo tutta da scrivere, ma ancora tutta da fare. Quale può essere il contributo specifico di uno storico nel parlare di tale argomento? Può la storia essere maestra di vita?

Può sembrare curioso o addirittura paradossale chiedere a uno storico di parlare dell’avvenire, ma credo che bisogna intendersi su che cosa è la storia e su che cosa sono la funzione e il mestiere di storico. A lungo si è detto che la storia è la scienza del passato, ma sempre più gli storici – e la società che sta intorno agli storici – si rendono conto che, come aveva già detto Marc Bloch – il grande storico francese, morto tragicamente durante la Resistenza, fucilato dai Tedeschi nel 1944 -, “la storia è la scienza degli uomini in società, nel tempo”. Bloch, nel suo celebre libro Apologia della storia (trad. it. Torino, Einaudi, 1969), aveva precisato che la storia si fa con un doppio movimento: illuminando il presente mediante il passato – e questa è sempre stata la funzione della storia -, ma anche il passato mediante il presente, perché il passato si comprende meglio alla luce di quello che è successo dopo e alla luce delle questioni che gli pone lo storico, guardando alla propria epoca e ai suoi problemi. Marc Bloch aggiungeva: compete allo storico di interessarsi del futuro.

http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=22

www.emsf.rai.it

http://www.filosofia.it

Leggi il cammino della filosofia “interpretato” da Hans-Georg Gadamer:

http://www.emsf.rai.it/gadamer/index.htm

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