ASCANIO CELESTINI – DAVIDE CERVELLINO

Locandina Ascanio

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Il velo prima di tutto

Ya_3ini

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Ripresa – “Le ragioni delle passioni”

“… Un filosofo del Seicento – G. W. Leibniz – sosteneva “cattivi sono gli uomini privi di passione”, perché sono uomini noiosi, mentre invece gli individui che provano delle passioni sono quelli che vogliono cambiare il mondo, ossia che desiderano andare verso un sempre maggiore principio di perfezione. Le persone che mancano di passione sono inerti e frivole.”

leggi l’intera intervista a Elio Franzini

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=140

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EMPATIA

Vicini a quel barcone

Mi venivano i brividi, e, subito dopo, attacchi di rabbia, quando mio padre iniziava la sua cavatina cinica: “L’uomo è bestia, egoista e capace di amare solo se stesso e la sua progenie”. La chiosa, lo sapevo, sarebbe stata, invariabilmente: “Siete dei poveri illusi voi, che volete la giustizia e l’eguaglianza”. Pensavo che era un vecchio scemo, chiuso, gretto. Un piccolo borghese senza sogni e senza progetti grandiosi. Leggendo di quel 71 % degli italiani che si sarebbe detto (il condizionale è diretta emanazione della mia incredulità di fronte ai sondaggi) favorevole ad incriminare per immigrazione clandestina i 5 superstiti di un gommone carico di morti di sete, ho pensato forse aveva ragione mio padre. L’empatia, questo stato d’animo faticoso e sublime, non è, evidentemente, alla portata di tutti. Ci si mette nei panni dei propri figli, poi dei propri amici, quindi dei simili intesi come affini, perché la fantasia è poca (nella media) e non riesce a coprire la distanza culturale fra una ventisettenne eritrea e la vicina di casa, anche lei di Brescia o Verona, che legge da sempre lo stesso giornale ed espone, negli incontri di pianerottolo, opinioni omogenee alla sottocultura di caseggiato. Pare difficile, invece, sentirsi, anche solo per un attimo, la pelle nera, la miseria come prospettiva, la guerra in casa, la carestia, l’ignoranza addosso, la denutrizione, la paura. Ci si riuscisse, magari facendo, come in certe scuole di recitazione,  esercizi di penetrazione nella psicologia del personaggio, non si potrebbe restare indifferenti a quell’oscillare patetico di speranza e disperazione, non si saprebbe condannare a restar fuori chi ha bisogno di essere accolto. L’empatia è la religione dei laici, si soffre come all’inferno,  ma non ci si può rinunciare. Pena la perdita dell’unico Dio concreto, praticabile: l’altro, la persona.

Questo articolo è stato scritto da Lidia Ravera (scrittrice) e pubblicato su “L’Unità” del 27 agosto 2009,  nella rubrica Voci d’Autore.

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BUONA RICERCA

MEGLIO QUI CHE ALTROVE

Forse la felicità, come la pace o la passione, arriva soprattutto quando non la cerchi.

Il poeta e filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson verso la fine della sua vita scrisse: “Tutto ciò che ho visto mi insegna a confidare nel creatore per tutto ciò che non ho visto”. Eppure Emerson aveva perso il padre all’età di 7 anni, poi la prima moglie, che ne aveva venti, e un figlio di cinque. In Giappone il poeta Issa, vissuto alla fine del settecento, è amatissimo per i versi in cui celebra incantato il mondo della natura. Eppure perse quattro dei suoi figli, vide la moglie morire di parto e lui stesso rimase paralizzato.

A 29 anni forse non conoscevo nei dettagli le vite di queste persone. Ma cominciavo a sospettare che la felicità non dipendesse tanto dalla nostra condizione quanto da ciò che ne facciamo, in ogni senso. “Nulla è buono o cattivo”, dice Amleto. “Ma è il pensiero che lo rende tale”. A quel tempo avevo già la fortuna di fare la vita che sognavo da ragazzo: un lavoro fantastico (scrivere di politica internazionale per la rivista Time), un appartamento a Park avenue,  tempo e denaro a sufficienza per andare in vacanza in Birmania, Marocco o El Salvador. Ma ogni volta che viaggiavo incontravo persone che, pur essendo intrappolate in mille difficoltà, sembravano avere più energie e più ottimismo dei miei amici. Nella privilegiata città californiana di Santa Barbara, dove ero cresciuto, conoscevo gente che magari era al quarto matrimonio e andava tutti i giorni dall’analista. E così, seguendo uno stereotipo sessantottino, ho lasciato la mia vita comoda per andare a vivere un anno in un tempio dei quartieri poveri di Kyoto. Quel mio anno è durato solo una settimana, il tempo che mi ci è voluto per accorgermi che non si trattava tanto di contemplare la luna e comporre Haiku, come avevo pensato, ma di pulire per terra senza sosta. Sono passati più di venta’anni, e oggi vivo ancora vicino a Kyoto in un appartamento di due stanze. Non ho la bici né la macchina, la tv non la capisco e non ho altri mezzi di comunicazione. Le mie giornate sembrano durare un’eternità, eppure non mi viene in mente neanche una cosa che mi manchi. Non sono un monaco buddistae non posso dire di amare le privazioni o l’idea di dover fare un’ora di strada per stampare l’articolo che ho scritto. Ma a un certo punto ho deciso che, almeno per me, la felicità non stava in tutto ciò che volevo o di cui avevo bisogno, ma in tutto ciò che non volevo. Così ho cercato di capire cos’è che davvero conduce alla pace interiore o alla concentrazione, che è il punto più vicino alla comprensione della felicità a cui sia mai arrivato. Non avere un’auto mi evita di pensare a un’enorme quantità di cose, e fa delle mie passeggiate nel quartiere un’avventura quotidiana. Dato che non ho un cellulare né una connessione internet veloce, ho il tempo di giocare ogni sera a ping pong, scrivere lunghe lettere a vecchi amici e andare a fare la spesa.

Forse la felicità, come la pace e la passione, arriva soprattutto quando non la cerchi. Di sicuro non consiglierei quasi a nessuno la mia vita, e mi dispiace molto per tutti quelli che negli ultimi tempi sono stati costretti di colpo a una semplicità cho non avevano desiderato. Ma non so quanto i dettagli o le conquiste esteriori possano davvero renderci felici. I miliardari che conosco pensano solo a diventare multimiliardari e passano più tempo in compagnia dei loro avvocati che dei loro amici

Desideri e necessità

Chi lavora in proprio fa sempre una vita precaria. Di questi tempi, poi, le incertezze sono più grandi che mai, soprattutto da quando gli attrezzi che mi sono scelto – le parole scritte – sembrano ridotti a semplici accessori per le immagini. Come quasi tutte le persone che conosco, anch’io negli ultimi mesi ho perso gran parte dei miei risparmi. Ho tempo però per leggere l’ultimo Carrè piluccando mandarini dolci al sole. E quando esce un album dei Sigur Ros, mi riempie giornate e notti intere. In quel momento mi sembra davvero che la felicità, come la pace o la passione, arrivi soprattutto quando non la cerchi. Se preferite la libertà alla sicurezza, se state più comodi in una stanza piccola che in una grande e trovate che la felicità consista nel far corrispondere i desideri alle necessità, allora non è correndo come pazzi che troverete la gioia. A New York una parte di me era sempre altrove, a pensare come sarebbe stata una vita semplice in Giappone. Ora che sono qui, mi accorgo che non penso quasi mai al Rockefeller Center né a Park aveneu.

Questo articolo è stato scritto da PICO IYER – giornalista e scrittore di viaggi per il New York Times -  ed è stato ripreso e pubblicato da INTERNAZIONALE 21/7/2009 – 20/08/2009

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TOGUPARTY

VENERDI’ 03.07.2009, ORE 20-23, TOGUPARTY.

FESTEGGIAMO UN ANNO DI ATTIVITA’ E CI SALUTIAMO PER L’ESTATE

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ETICA E PROGRESSO – EMANUELE SEVERINO

L’Occidente è dominato da una concezione progressiva del sapere. La scienza è l’esempio più formidabile di questa immagine della conoscenza concepita come la conquista di traguardi sempre nuovi e la dissoluzione di quelli precedenti. Ciò che caratterizza questa concezione del sapere non è il fatto di avere certe credenze sul mondo, ma la possibilità di correggerle in modo non arbitrario. Così è stato, ad esempio, quando la Teoria della Relatività di Einstein ha soppiantato la Teoria di Newton. Ma questa idea di progresso pone una sfida fondamentale all’etica. Le nostre credenze morali infatti difficilmente riescono a resistere al punto di vista scientifico. Nella prospettiva del progresso della scienza e della tecnica i valori e gli impegni morali rappresentano legami spesso irrazionali. L’etica si misura nella lealtà verso un insegnamento o verso un principio, legami di fiducia e di coerenza che possono non trovare giustificazione agli occhi di un estraneo, ma che costituiscono l’identità di una persona. Possiamo tenere saldo il valore di questa identità senza rinunciare all’idea del progresso? Scienza e tecnica hanno un posto centrale nelle nostre vite. Ma l’immagine di un mondo svuotato di valori è ancora troppo temibile per rappresentare una soluzione attraente del conflitto.

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=554

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VOTO – JACQUES LE GOFF – Morale e politica nel XXI secolo

Professor Le Goff, in questa conversazione vorremmo parlare del XXI secolo, ossia di una storia non solo tutta da scrivere, ma ancora tutta da fare. Quale può essere il contributo specifico di uno storico nel parlare di tale argomento? Può la storia essere maestra di vita?

Può sembrare curioso o addirittura paradossale chiedere a uno storico di parlare dell’avvenire, ma credo che bisogna intendersi su che cosa è la storia e su che cosa sono la funzione e il mestiere di storico. A lungo si è detto che la storia è la scienza del passato, ma sempre più gli storici – e la società che sta intorno agli storici – si rendono conto che, come aveva già detto Marc Bloch – il grande storico francese, morto tragicamente durante la Resistenza, fucilato dai Tedeschi nel 1944 -, “la storia è la scienza degli uomini in società, nel tempo”. Bloch, nel suo celebre libro Apologia della storia (trad. it. Torino, Einaudi, 1969), aveva precisato che la storia si fa con un doppio movimento: illuminando il presente mediante il passato – e questa è sempre stata la funzione della storia -, ma anche il passato mediante il presente, perché il passato si comprende meglio alla luce di quello che è successo dopo e alla luce delle questioni che gli pone lo storico, guardando alla propria epoca e ai suoi problemi. Marc Bloch aggiungeva: compete allo storico di interessarsi del futuro.

http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=22

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Hans-Georg Gadamer

Il tratto fondamentale dell’ermeneutica contemporanea è rappresentato dalla progressiva trasformazione dell’ermeneutica da disciplina particolare e ausiliaria, spesso accompagnata da un aggettivo (giuridica, biblica, letteraria…), a – secondo una fortunata espressione di Gadamer – vera koiné del filosofare della nostra epoca. Nel Novecento, infatti – ancora ricorrendo alle parole di Gadamer – questa parola “ha fatto fortuna, come accade alle parole che esprimono in modo simbolico l’atteggiamento di tutta un’epoca”. La storia di questa decisiva trasformazione è segnata soprattutto dal pensiero di Hans-Georg Gadamer e dal suo fondamentale Verità e metodo, che ha inaugurato il cammino dell’ermeneutica contemporanea nel suo senso più compiuto.
L’impostazione attraverso cui Gadamer articola il discorso ermeneutico ruota intorno ad alcuni termini-chiave: ‘interpretazione’, ‘storicità’ e ‘dialogo’.
Il cammino della filosofia vuole essere un’interpretazione del pensiero filosofico fondata sui contenuti e sulle forme della storicità e del dialogo, un viaggio che dia voce a un Gadamer testimone e interprete ‘in dialogo’ con la tradizione. Rispondendo alle nostre domande il filosofo tedesco – considerato l’erede di quella affascinante avventura del pensiero che va dalla filosofia classica tedesca ad Heidegger – si ferma a conversare con Eraclito, Parmenide, Platone e Aristotele, Kant, Hegel fino ai filosofi a lui contemporanei, ripensandone i concetti fondamentali. “Dialogare” significa varcare una distanza, riconoscere l’ “altro” nella sua irriducibile alterità per incontrarlo e comprenderlo.
Una “storia della filosofia” così pensata e raccontata è dunque un corrispondere alla domanda ermeneutica, ascoltando un filosofo che ha fatto del colloquio con i grandi maestri del passato la cifra del proprio pensare.
Una discussione che termina senza finire, perché – concludendo ancora con Gadamer, ma con una parola che non vuol essere mai l’ultima – “un dialogo è qualcosa in cui si capita, in cui si viene coinvolti, del quale non si sa mai prima cosa ne ‘salterà fuori’, e che si interrompe non senza violenza, perché c’è sempre ancora d’altro ancora da dire… Ogni parola ne desidera una successiva; anche la cosiddetta ultima parola, che in verità non esiste”.

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http://www.emsf.rai.it/gadamer/index.htm

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USURA

Usura

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